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creepy cute commie pack

  • what the pack?!?

gli strumenti della casa del padrone

Posted on 2021/01/21 - 2021/03/17 by lazyfox

ho la s/fortuna di essere una delle persone che amministra un gruppo su social innominabile dove si parla di cultura nerd in ottica di sinistra. di recente è esplosa una discussione dovuta alla presenza di una persona all’interno del gruppo che ha avuto comportamenti pesantemente sessisti in passato. senza andare nei dettagli, c’è chi si lamenta del fatto che uno spazio che si dichiara di sinistra accolga gente del genere, chi si lamenta di non sentirsi sicur* in uno spazio con gente del genere, e chi si lamenta che questa persona ha fatto un percorso e non possiamo continuare a considerarlo “gente del genere”.

una discussione su questi temi avrebbe bisogno di portare a una decisione partecipata per poter funzionare, poiché tocca una serie di principi considerati parimenti validi dalla comunità di riferimento e li mette in contrasto, a torto o a ragione. dico “dovrebbe” perché nel caso in questione non è andata così, per svariate ragioni che in buona parte non sono centrali per il ragionamento che voglio sviluppare.

non mi voglio infatti neanche mettere a ragionare di cancel culture, castelli dei vampiri, o altri concetti che ruotano intorno a questi, per quanto siano stati il nucleo centrale delle discussioni che si sono svolte, bensì del fatto che gli spazi virtuali che viviamo non sono strutturati per decisioni collettive.

tre problemi

con “strutturati” intendo dire tre cose. in primo luogo, non sono programmati in questo senso. esistono lu admin, e poi il resto dell’utenza. non ci sono strumenti pratici di distribuzione del potere. non ci sono strumenti per permettere a ogni spazio di decidere a sua volta i propri meccanismi decisionali. ecc ecc.

queste sono scelte architetturali volute, o talvolta sono decisioni implicite, prese in maniera acritica da una storia informatica, nata in un certo contesto, e che nessuna piattaforma ha interesse o si è mossa a cambiare. in questo senso, infatti, neanche la maggioranza delle piattaforme alternative come quelle del fediverso si muovono sulla questione, e in questo come in vari altri aspetti copiano ciò che già esiste. dentro uno spazio possiamo inventarci dei modi per gestire la situazione, ma nel farlo dobbiamo spesso lottare contro lo strumento, invece che usare lo strumento. la questione della “bandierina bianca” di bida è un buon esempio secondo me: è una decisione interna, ma che non ha degli strumenti tecnici che la supportino, né per spingere a usarla, né per rispettarne il funzionamento.

in secondo luogo, e questo aspetto è stato dibattuto spesso, il mezzo di comunicazione virtuale è molto limitato e riduce l’empatia. mancano infatti in esso vari elementi che troppo spesso sottovalutiamo (tono della voce, sguardo, espressione, gestualità, posizione del corpo, anche solo la presenza fisica e visibile), e che diminuiscono drasticamente l’aspetto empatico che può permettere la ricomposizione tra necessità diverse, o addirittura che è essenziale per farlo.

infine, un luogo virtuale ha la caratteristica che può essere partecipato da un grande numero di persone. con più di 800 partecipanti, come nel caso di cui sopra, la struttura fisica più vicina che ci si può immaginare è quella della piazza. ed è impossibile una discussione davvero partecipata in una grande piazza, dove sappiamo che le voci che si sentono sono quelle che urlano, e quelle delle figure con maggiori doti carismatiche, e che non c’è ragione per cui coincidano con quelle che portano a un miglioramento. forse in questo senso si torna nuovamente al discorso del modello che si è programmato, perché indubbiamente ci sono tanti altri modelli di strutturazione del discorso (molti dei quali inesplorati) che vanno in direzioni diverse.

futuri

alla fine della fiera, un punto importante per me è quello di avere delle proposte. dire “così non va” è utile, ma limitato. abbiamo molto bisogno di pars construens, e in ambiti ben più importanti di quelli dei social, si parlerebbe di immaginare il futuro. come mi faceva notare queerwolf, che spesso si trova a dibattere su questioni queer e femministe in ambito di costruzione degli immaginari, non è tanto la critica alle proposte che vengono avanzate a essere problematica (d’altronde molte di queste proposte sono per forza di cose estremamente nuove, e quindi è inevitabile che abbiano dei difetti), quanto piuttosto la mancanza di nuove proposte che vadano a risolvere i problemi che stanno dietro. per prendere un esempio attuale, mi puoi anche scrivere un saggio sui motivi per cui lo schwa non è una buona soluzione per un linguaggio inclusivo, ma se poi tutte le tue energie analitiche le utilizzi per la critica invece che per produrre una soluzione migliore, allora il tuo saggio te lo potevi tutto sommato anche risparmiare.

quindi delle idee le abbozzo qui, anche se so che non ho i mezzi per realizzarle, né ho idea se possano funzionare. ma d’altronde se ci fosse certezza su cosa funziona o meno, non saremmo ancora qui a lamentarci a vicenda, no?

la prima è, appunto, strutturale. la tensione tra la grande piazza, lo stato, la comunità estesa, e le piccole comunità, i gruppi di interesse stretti e locali, c’è da tanto nel ragionamento di sinistra, sia come preferenza per uno degli estremi, sia come tentativo di conciliare questi modelli. a livello social non abbiamo fatto molto. se è vero che i gruppi di discussione possono essere considerati una forma di gerarchia a un livello che permette di ritrovarsi su tematiche condivise, quando un gruppo diventa così enorme ci avviciniamo di nuovo a una dimensione forse troppo ampia. ad esempio un gruppo nerd di sinistra può sembrare un ambito ristretto, in realtà poi al suo interno si può scoprire che le istanze femministe nel mondo nerd sono vissute in maniera diversa dalle persone che lo partecipano, quelle queer anche, ma anche quelle comuniste o anarchiche. sarebbe bello trovare un modo per strutturare le conversazioni in ambienti più piccoli e fluidi che si possano creare, fondere e disperdere nuovamente piuttosto che in grandi piazze rigide. se vogliamo raccontarcela in modo pretenzioso: delle strutture rizomatiche invece che gerarchiche. come? non ne ho davvero idea. costruire la visualizzazione dei topic di discussione intorno a dei tag invece che dei gruppi? la possibilità di creare sottogruppi e gruppi paralleli di conversazione in libertà mantenendo una connessione? altro? in questo senso esperimenti come scuttlebutt sono interessanti nella loro totale fluidità (che però al momento non offre neanche nulla che permetta poi effettivamente di organizzare, esplorare e modellare lo spazio informativo).

poi c’è il discorso degli strumenti di amministrazione. la struttura che al momento definisce la stragrande maggioranza degli spazi è sostanzialmente a due livelli: chi amministra, e chi fruisce. sarebbe davvero interessante se ogni gruppo di persone potesse decidere da sé e collettivamente, nel momento in cui decide di creare uno spazio, quali regole impostare in quello spazio. cosa è presente nello spazio, e cosa no. quali sono le regole di approvazione dei contenuti, quali flussi si possono seguire, in che condizioni i contenuti rimangono o vadano eliminati, e via dicendo. in questo vedo in particolare due evoluzioni interessanti:

  • la meta-amministrazione: tra le regole di amministrazione ci sono anche dei meccanismi che definiscono come si possono cambiare o meno le regole di amministrazione, per permettere così una evoluzione degli spazi a seconda di chi li vive
  • libera scrittura di regole: una regola non è altro che del codice; al momento mi sto interessando a una serie di idee e tecnologie (come le object capabilities o le secure extension di javascript) che tra le possibilità hanno proprio quella di fornire definizioni di comportamento con una granularità completamente personalizzabile e in piena sicurezza.

nel complesso, l’idea è che la possibilità di scrivere da sé le regole, condividerle, e decidere quali e come implementare permetterebbe una gestione anarchica degli spazi virtuali.
rischia di diventare incredibilmente irreggimentato? assolutamente. rischia di diventare un server anarchico di minecraft (dove vale la definizione negativa e sbagliata di anarchia)? pure. oppure no. boh.

infine, trovare dei meccanismi anonimi di espressione emotiva associata a una conversazione. il cuoricino e i like e tutto il resto di social innominabile sono modi di esprimere approvazione e supporto alla persona o al testo, e così riceverli in maniera nominale fornisce un input spesso importante per la persona, secondo quei meccanismi malati di induzione dopaminica che tanti social sfruttano. ma se non ci concentrassimo sui singoli, e ci chiedessimo cosa ti ha lasciato una conversazione nel complesso dopo averla letta? se arrivassi su una discussione dove il mood principale è di incazzo, mi verrebbe ancora da fornire la definizione esatta di “rizomatico” perché secondo me è stato travisato il contenuto di questa intervista di deleuze, oppure in quello specifico caso passerei oltre e cercherei di cogliere il problema espresso invece che la sua forma? se vedessi che il mood principale è triste o scoraggiato, mi metterei a cacciare insulti tra le righe a chi ci partecipa invece di cercare delle soluzioni costruttive? chissà, forse sì. l’empatia umana è una roba strana. però sicuramente l’abilità di “read the room” è molto limitata con gli strumenti attuali.

per chiudere

sicuramente mancano tanti elementi da questo mio ragionamento. ci sono tante cose che non ho letto, e tanti aspetti che non conosco: per dire, ci sono molti testi del gruppo ippolita che devo davvero leggere, perché hanno fatto un sacco di ricerca sul tema. prendiamola così: come una testimonianza di un’esperienza vissuta e una serie di ragionamenti che ne sono scaturiti, e che possono andare ad aggiungersi, complementarsi o essere smentiti da tanti altri che si trovano in giro.

Posted in chihuahua

didascalico

Posted on 2020/12/28 - 2021/03/17 by queerwolf

quando mi è stato fatto notare qualche mese fa, mi sono innervosito. ho cercato subito un modo per riportare la discussione a vantaggio della mia posizione, senza rendermi conto di star perdendo un’occasione importante. perché chi era dall’altra parte aveva ragione: fare narrativa raccontando le vite delle minoranze porta spesso alla costruzione di storie con scene e dialoghi didascalici, sacrificando il “bello” a favore dell’utile.

la cosa che non avevo capito durante quella conversazione è che questo non è né una colpa, né un problema. ci sono ovviamente le grandiose eccezioni, ma non tuttu noi che scriviamo siamo Virginia Woolf, e spesso arrossiamo anche solo se ci paragonano a Gramellini (dovessi farlo, uccidetemi).

per parlare di razzismo senza essere didascalica, sua venerabilità N.K. Jemisin ha dovuto scrivere una storia in tre volumi. Nnedi Okorafor invece implicitamente ti dice: se non comprendi i riferimenti alla cultura nigeriana, sono cavoli tuoi. tieniti accanto un motore di ricerca e studia, che se hai imparato tutte le formazioni del Milan degli ultimi 40 anni puoi pure ricordarti che cos’è un dashiki.

quindi.

le narrazioni didascaliche non sono una colpa

e il perché è banale: per un vantaggio di tempo e influenza dei/nei media, ciò che ha rimandi alla cultura egemone non avrà mai bisogno di essere spiegato. se racconto la vita di Giulio e Agata e del figlio adolescente Matteo e sono tuttu e tre cisetero della periferia di Latina, non mi servono contestualizzazioni, spiegazioni, approfondimenti per far capire a chi legge perché Matteo voglia scappare a Bologna. e se scelgo di farlo, ho dalla mia qualche secolo di metafore, rimandi, giochi di parole.

se invece voglio parlare dell’esperienza non binaria di K, sono obbligato o a piazzare un’etichetta (es: “Ciao lettriciu, sorpresa: ti presento K, persona non binaria”) o a snocciolare qua e là esempi, dettagli, frasi, dialoghi nella speranza che la cosa sia chiara a chi legge. una di quelle cose che il critico MBEB di turno lamenterebbe come “Questo testo è pesante e pieno di riferimenti non necessari” (sul fatto che la critica sia costruita da un pubblico preciso per un pubblico preciso, è un altro problema che si affronterà probabilmente più avanti).

negli ultimi anni sono molti i gruppi marginalizzati che stanno cercando di prendere un controllo sulla propria rappresentazione. spesso questa fino a poco fa era assente, superficiale, pregiudizievole. siamo appena nati, ed è necessario del tempo per inventarci un nuovo lessico, nuove prospettive, per far sì che la nostra lingua possa rappresentarle a dovere. e mentre si procede per tentativi, la soluzione più immediata per arrivare in modo chiaro a chi leggere, è l’essere didascalicu.

le narrazioni didascaliche non sono un problema

primo: cito di nuovo la divina N.K. Jemisin che in un’intervista in soldoni diceva: se usiamo linguaggi metaforici continuerete a dire di non aver capito che quel racconto parlava di razzismo/bifobia/sessimo etc. se ve lo mettiamo davanti in modo esplicito potete pure continuare a girarvi dall’altra parte, ma almeno saprete di essere degli stronzi.

ma, soprattutto: per chi sono queste storie?

qualche giorno fa mi sono sgridato da solo. ero circa a due terzi di Felix ever after di Kacen Callender (un romanzo che parla di un ragazzo AFAB che subisce un outing a scuola, e del suo desiderio di essere amato), e continuavo a borbottare quando mi trovavo davanti a dialoghi che avevano una sola funzione: smontare topos transfobici, come la Tizia che dice “Sono femminista, e quindi se sei un ragazzo AFAB per me sei una traditrice delle donne”. continuavo a pensare: ecco, questi sono i libri che danno ragione al ragazzo con cui ho discusso mesi fa. e poi ad un certo punto mi sono accorto di star ragionando come il classico MBEB, convinto che tutte le narrazioni debbano essere rivolte a me, che sia il lettore modello di ogni fottutu autriciu di questo pianeta.

Felix ever after non è per me: certo, lo posso leggere (e l’ho fatto con piacere), ma il libro di Callender è per chi adolescente si riconosce come AFAB/AMAB e ha paura, prova confusione, non comprende perché si senta quasi a suo agio nella definizione di persona trans, ma non fino in fondo.

quando un testo ha questo obiettivo, quando vuole dire “Esistiamo e meritiamo una vita piena e valida come quella di tuttu”, non può che essere didascalico. certo, ci sono scene che possiamo narrare in modo più esteticamente appagante (non a caso, quelle che si appoggiano alle prospettive della cultura egemone, come un padre che abbraccia un figlio dopo anni di rifiuti), ma la chiarezza diventa più importante dell’estetica. quando non sei abituatu a vederti rappresentatu, è istintivo cercarti nelle storie che incontri, sperare che il fatto che Pinco Pallo sia un uomo di trent’anni single in quel romanzo sia il segno che no dai, non è single, ha un compagno ma l’autore non è stato così coraggioso da dirlo. e leggere in modo chiaro ed esplicito “E poi Pinco Pallo si disse “Basta!”: fece le valigie e si trasferì da Amanda, Stefano e Pietro, i suoi grandi amori” è una cosa che chi non fa parte di una minoranza non potrà capire. non è una colpa, ambiamo alla vostra stessa fortuna. ma nel mentre avremo bisogno di scrivere cose che voi riterrete “brutte”, e ce ne faremo una ragione: quei libri non sono per voi.

Posted in colpi di codaTagged Kacen Callender, letteratura, MBEB, N.K. Jemisin, Nnedi Okorafor

Porno, sesso e infelicità

Posted on 2020/12/05 - 2021/03/17 by queerwolf

TW: si parla di sesso in modo informale.

 

in questi ultimi mesi il mio rapporto col sesso si è incasinato. non che sia stato mai particolarmente sereno, però l’anno passato avevo iniziato a superare alcune paure, a sperimentare almeno durante la masturbazione. poi qualcosa si è bloccato. il desiderio va e viene, e quando viene non sa che voce darsi. una cosa che mi ha colpito, è che quando ho parlato di questa cosa a persone vicine spesso mi son sentito dire “Anche io”. immagino che pandemia e dispositivi di distanziamento sociale abbiano le loro responsabilità: il sesso spesso è un atto di fantasia, e la fantasia è un palloncino ancorato al reale, e questo reale per moltu di noi da mesi esclude o complica il contatto fisico.

ma sono dell’idea che le crisi non creino problemi ma li esasperino, e che i disagi che proviamo ora fossero lì dietro l’angolo ad aspettarci. e quindi ho iniziato a ragionare sul principale produttore di fantasie sessuali della nostra società: il porno.

le considerazioni che seguono sono davvero banali, ne sono consapevole. però a volte inseguiamo così bene le soluzioni più complesse da dimenticarci le risposte più ovvie. scriverle mi ha aiutato a fare un po’ più di ordine in testa, e spero che possa aiutare qualcunu di voi. premetto infine che le mie riflessioni fanno capo alla pornografia omosessuale, ma visto che la comunità gay è sempre stata bravissima nel prendere il peggio dal mondo eterosessuale, immagino che molti punti siano sovrapponibili.

 

nel porno gay c’è uno stereotipo fisico che è “normale”, dove “normale = a cui ambire, pregiato”. lo si comprende perché non ha un suo tag specifico, non finisce in un kink, in una categoria. questo ubergay nasce dall’intersezione tra un discorso di età (a spanne dai 22 ai 32 anni), fisicità (né twink né bear, magro ma non troppo, muscoloso ma senza eccessi, assolutamente non grasso dove grasso = 0,0005% di ciccetta sulla pancia), colore della pelle (bianca), abilità (totale), aderenza al ruolo di genere (100% legato alla mascolinità egemone, sempre sessualmente arrapato e arrapabile). basta distanziarsi di un fattore da queste possibilità per diventare non una persona, ma una categoria pornografica.

poi si aggiunge la rappresentazione dei ruoli sessuali, dove la differenziazione ricade su ciò che si fa. in linea di massima il confine netto è tra attivo e passivo, e la definizioni di chi è cosa ricalca in modo chiaro la divisione di ruoli di genere etero. l’idea della versatilità merita già una categoria a sé (flip flop). la regia è la maggior parte delle volte una celebrazione dalla prospettiva dell’attivo, che viene dipinto come un dominatore, vuoi attraverso le posizioni assunte (pompini ricevuti spaparanzato sul divano mentre l’altro è inginocchiato; in piedi con prospettive dal basso, dove l’attivo sembra gigantesco, o dall’alto, dove il passivo è palesemente sovrastato; si scopa da dietro a quattro zampe; e via di seguito) vuoi dalle cose che accadono (sborrata in faccia). spesso è un attivo “totale”: se è rappresentato del petting, non tocca il cazzo del passivo, non lo spompina. spesso non fa nemmeno del rimming: il passivo d’altronde è noto che è rilassato e dilatato a sufficienza quando l’odore di testosterone riempie l’aria, quando è chiaro che avrà l’onore di ricevere un VERO CAZZO™. tra i due, quello dell’attivo è il ruolo più performativo (benvenuta mascolinità tossica) e che non concede errori di rappresentazione: pose sempre tese, verseggi da “vero maschio” (yeah, ah, fuck!), ritmi penetrativi da martello pneumatico. non è insolito che lui venga, il passivo no. in fondo, il cazzo nel porno come nel mondo reale è il centro dell’universo, e spesso le inquadrature sono per lo più dedicate a lui e a ciò che fa o riceve.

e poi c’è il modo in cui viene narrato l’atto sessuale: come un atto penetrativo che culmina nell’eiaculazione. tutto quello che c’è prima, è in funzione della penetrazione. si comprende bene anche nei teaser, in quei video sotto i dieci minuti che devono poi invogliarti a sottoscrivere un abbonamento o comprare il film: seghe, pompini, baciotti, dialoghi occupano la maggior parte del tempo perché non sono importanti. quel che conta è la penetrazione, e/o l’eiaculazione: alcuni teaser si fermano dopo pochi colpi in culo, altri si bloccano nel momento in cui l’attivo sbora. vista la loro funzione commerciale, il messaggio è chiaro: ciò che vuoi comprare viene dopo, tutto il resto non conta.

se il filmato si concentra solo su un aspetto del petting (sega, pompini) già siamo in una categoria separata, in un kink (e visto che la fantasia è ancorata al mondo reale, nel quotidiano spesso queste cose non sono definite come sesso, non sono indici di superamento di quel, ehm, grande traguardo che è la perdita della verginità). il mondo delle coccole post orgasmo non esiste. le cose altre (sado, pissing, frotting, momenti di tenerezza etc etc etc) sono per l’appunto altre: non sono il centro del porno penetrativo che, di nuovo, passa per “normale = migliore”.

 

tutte queste cose sono importanti non solo perché condizionano il modo in cui costruiamo e rappresentiamo le nostre fantasie (tra l’altro, la definizione del consenso nel porno è praticamente assente, la coercizione e forme più o meno esplicite di stupro sono frequenti), ma visto che il porno costruisce il nostro immaginario sessuale, ci dicono anche se siamo o meno degni di attenzioni e affetto nel mondo reale.

le chat di gay dating seguono con le loro codifiche esattamente quelle che troviamo nel porno: tag fisici, tag di ruolo, tag di kink. si specifica ciò che esce dalla norma. se sento e desidero cose diverse, allora sono fuori dalla norma, da quella norma che in automatico è giusta. e se gli altri vogliono cose diverse da me, ed io ho una sessualità che (sembra?) aderire perfettamente a quell’immaginario, allora gli altri sono sbagliati o, al massimo, sono funzionali al mio divertimento esotico per una volta o due.

ma il sesso e il desiderio sessuale e le espressioni identitarie non sono mai sbagliate una volta che c’è il consenso e, soprattutto, non sono mai “normali”. abbiamo costruito un’identità variegata e complessa su un bisogno primario come quello dell’alimentazione (con un sacco di altri problemi) e, nazionalismi idioti a parte, è raro che qualcuno ci neghi la possibilità di costruirci la nostra nicchia alimentare fatta di cose che ci piacciono, di cose che non ci piacciono, e di combinazioni che ad altri sembrano strane (anche se poi trovare determinati prodotti diventa comunque difficile e costoso). dovrebbe essere lo stesso per il sesso, che è un bisogno primario a sua volta, uno strumento comunicativo e di piacere.

quando vado al supermercato, non trovo un reparto marmellate pieno di giganteschi barattoli di confettura di albicocca, illuminati e ben esposti, pubblicizzati, mentre quelle di arance, mandarino, prugna, pesca vengono nascoste dietro, messe in lontananza, confezionate in barattoli minuscoli, posizionate nell’ombra. e nessuno mi guarda male se ignoro le marmellate per fare scorta di crema al pistacchio.

 

la metafora alimentare fallisce comunque in un aspetto: per quanto si dica “siamo ciò che mangiamo”, non siamo mai davvero una marmellata di more o una confettura di fragole. quando invece si tratta di sesso e pornografia, siamo anche la parte rappresentata. e il porno mainstream ci sta dicendo costantemente che se non siamo confetture di albicocche, nessuno ci vorrà mai. che è letteralmente quello che rimarcano Grindr, Gay Romeo, ma anche app miste come Tinder: esiste una sola rappresentazione (binaria), una sola “scelta” sessuale (etero o gay), una sola rappresentazione erotica (penetrativa ed eiaculativa).

fortunatamente stanno nascendo nuovi modi di fare pornografia, o si stanno valorizzando voci che da decenni lottano contro questa rappresentazione (Annie Sprinkle, Candida Royalle), ma sono cose che rimangono lontane dagli ambienti mainstream, e che si scoprono spesso tardi, quando una fetta grossa della propria identità è già consolidata. e a volte temo che da lì in avanti si possano trovare solo rattoppi, non nuove definizioni di felicità.

Posted in la tanaTagged porno, sesso6 Comments

spillette

Posted on 2020/06/16 - 2021/03/17 by queerwolf

ho sempre amato le spillette. messe sullo zaino, mi aiutano a dire al mondo in cosa mi identifico e ciò per cui voglio lottare.

ovviamente ogni spilletta ha la sua storia: per esempio, per arrivare a definirmi poliamoroso ci sono voluti anni di riflessioni, letture, condivisioni, dolori e ora sono felicissimo di andare con quella spilletta in giro per la città.

se domani dovessi toglierne una non ne cancellerei di certo la storia: rimane nei diari, nella mia testa, nelle discussioni collu miu amicu. La sua storia continuerà nelle motivazioni per cui l’avrò levata, perché ho ritenuto quel valore non più mio o superato. quando avevo vent’anni un forte aspetto identitario era nella musica (POP, chiedo perdono XD) e così finiva che lo zaino aveva citazioni di Britney e spillette trash. col tempo la mia storia personale (che è frutto anche di tutte le storie personali altrui che ho incrociato nel mio percorso) ha modificato la mia scala di valori, le spillette di Britney sono sparite, ma non per questo le mie gambe stanno ferme quando dalle casse esce l’intro it’s Britney, bitch!

anche se dovrei curarlo di più, quando penso al mio zaino e alle sue spillette penso anche ad uno spazio sicuro. un linguaggio per dire: ehi, se mi verrai a parlare di queste cose sappi che ti sentirai a casa. non è mai capitato che qualcunu mi dicesse che una di queste lu feriva perché negava la sua identità, la sua esperienza (a parte forse qualche coinquilino con un gusto musicale decente), ma se fosse accaduto avrei cercato di capire le motivazioni della persona e l’avrei levata: la storia che mi ha portato a quella spilla comunque sarebbe rimasta nella mia esperienza, assieme ora allo scoprire che quel valore creava dolore a qualcun altru, e all’impegno nel non ripetere quell’errore. tenerla con la consapevolezza che il suo significato possa ferire qualcuno* mi farebbe sentire scorretto non solo davanti al giudizio dellu altru, ma soprattutto del mio.

non sono esattamente il re dell’autostima, eppure la mia identità non scompare se mi viene chiesto di togliere una spilletta per un buon motivo: preferisco uno zainetto che faccia sentire lu prossimu a casa che non uno che dica “questa è la mia storia, se stai male è un problema tuo. contestualizza”.

*ovviamente se tiziu mi dice “leva la spilletta perché l’idea che esistono i froci mi ferisce” e tutte le varianti del pensiero omolesbobitrasfobico, razzista e sessita: ciaone.

Posted in la tanaTagged #identità, #spillette

the quiet year: creare comunità dopo l’apocalisse

Posted on 2020/04/30 - 2021/03/17 by lazyfox

the quiet year (“l’anno tranquillo“) è un gioco di ruolo da tavolo della designer avery alder. in questa esperienza si interpretano delle fazioni o correnti di pensiero dentro una comunità che si è appena stabilita in un nuovo territorio dopo il collasso della civiltà come la conosciamo. la comunità ha un anno di tempo: in un momento qualunque dell’inverno imminente potrebbero arrivare i pastori della brina e far terminare la partita. settimana dopo settimana, a turno, si dovranno gestire dei nuovi eventi problematici o misteriosi, e in base ad essi si può scegliere se aprire una discussione (ma questo preclude ogni altra azione), o far partire un progetto per la comunità (ma in questo caso è espressamente vietato discutere di esso, anche se si può esprimere dissenso senza parlare prendendo un segnalino disprezzo).

il tempo che incalza obbliga a scegliere tra le due opzioni, e l’antitesi tra le due scelte fornisce un chiaro modello dell’autrice sul tema dell’azione politica nel mondo reale: c’è sempre da decidere se è più importante parlare dei problemi collettivamente o agire per risolverli, spesso non c’è il tempo per entrambi, e sono invece sempre necessari tutti e due. questa dinamica tocca una delle scelte difficili del lavoro politico di comunità e collettivi dall’organizzazione orizzontale (non a caso avery alder ha delle posizioni fortemente anarchiche), ma anche gli eventi che entrano in gioco obbligano a farne, di altro tipo. se arrivano persone malate in cerca di asilo possiamo rischiare la salute dell’intera comunità per un atto di solidarietà? quando nascono dei conflitti interni possiamo rischiare una scissione o ne potrebbe andare della sopravvivenza di tutti? di fronte ai pericoli esterni quali misure di sicurezza possono essere adottate senza cadere nel rischio di una sorveglianza permanente?

si può senz’altro definire “politica” un’esperienza ludica che lo sia esplicitamente (come comrades o sigmata), non si può però negare che questa dimensione sia centrale anche in un gioco come the quiet year, che parla dell’impossibilità di una perfezione al tempo stesso comunicativa, teorica e di prassi in una comunità che attraversa una situazione di crisi. il discorso più generale che si può fare è che le regole di un gioco rappresentano il funzionamento del suo mondo, e quindi anche la visione del mondo che l’autriciu presenta. se ad esempio in molti gdr tradizionali la crescita di un personaggio è lineare, indipendente dagli altri personaggi, prevedibile e determinata dai successi che ottengono, invece in cuori di mostro (altro gioco di avery alder) ogni avanzamento presenta anche l’introduzione di nuovo caos e problemi, le scelte devono essere guidate dalle situazioni vissute e non pianificate, e la crescita avviene con il fallimento. il primo sistema modella bene l’esperienza di vita di persone privilegiate, che possono contare su un sistema stabile e che le sostiene, il secondo è invece più rappresentativo della vita delle minoranze oppresse, e in questo senso anche una meccanica apparentemente così semplice, neutrale e “apolitica” come l’avanzamento di un personaggio diventa, sì, politica.

è facile a volte guardare certe realtà dall’esterno e trovare mille critiche sotto l’aspetto teorico o pratico. the quiet year ci fornisce la possibilità di metterci qualche ora nei panni dei gruppi che guidano queste comunità, vivere i compromessi e gli errori sulla nostra pelle e, chissà, forse portare qualcosa a casa per le nostre stesse esperienze comunitarie future.

Posted in cuori di volpe

di psicoterapia, romanzi e stupri

Posted on 2020/04/21 - 2021/03/17 by queerwolf

cose di cui si può parlare grazie all’anonimato*.

dopo quasi due anni, oggi chiudo il mio (primo) percorso di psicoterapia. e da personcina attenta alla voce narrante del mondo, non riesco a non vedere il collegamento tra una serie di cose.
sono entrato in terapia quando ho iniziato ad accorgermi che non sentivo più nulla o quasi. le due emozioni principali erano paura e senso di soffocamento, la medicina preferita l’alcool (non avevo ancora realizzato fino in fondo quanto questo fosse un problema ma ora sono un anno, sei mesi e 12 giorni che non bevo e wow), le giornate una specie di grossa trappola.
giusto un mese e rotti prima del primo incontro avevo concluso la stesura definitiva di quello che avrei voluto fosse il mio secondo romanzo. volevo presentarlo ad un concorso, non passai la prima fase di selezione, decisi che ero un fallito e non toccai più penna per mesi.

punto centrale della storia è il superamento di uno stupro. ho cercato di immaginare un protagonista distante da me, ma per il tema principale ho preso a piene mani da una violenza che ho subito a 20anni (ad essere puntuali, quella è stata la prima ed unica esperienza di stupro che ho vissuto, ma non il primo abuso. ma dato che di tante cose non si è parlato se non negli ultimissimi anni, non ne ero consapevole). ho iniziato a scriverne senza pensare troppo alle conseguenze per me, e mi rendo conto solo ora che quell’idea è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso che era già abbondantemente riempito dagli eventi degli anni precedenti (tipo una relazione psicologicamente abusiva).

quel testo dopo la bocciatura al concorso se ne è rimasto chiuso nel PC per quasi due anni. fino a tre settimane fa, quando l’ho ripreso in mano per un altro potenziale concorso, e mi sono accorto che non era malaccio (spoiler: ho dovuto stravolgerlo totalmente, ma questa è un’altra storia ancora). non è facile pensare a quell’evento, a quello che ne è venuto dopo, provare a renderlo su una pagina che voglio sia viva e coinvolgente. ma ora, a distanza di due anni è qualcosa di vivo e che magari fa paura ma non terrore. la prima sensazione è nel voler far qualcosa per far sì che queste cose non accadano più (e per questo finisco per parlarne), ma non sono qui più a dirmi che è stata colpa mia, che me lo sono meritato, che l’ho cercato (che quando il messaggio che passa da fuori è questo, poi alla fine ci credi anche tu).

e mi piace un sacco questa simmetria: scrivo il libro – inizio la terapia – riprendo in mano – finisco la terapia. è una di quelle cose che un autore potrebbe mettere in silenzio in un romanzo per far capire, senza esplicitarlo direttamente, che lu suu protagonistu è prontu per viversi più pienamente.
e almeno per oggi, io mi sento così.

*che l’assenza di un nome e di una faccia non servono solo ai cyberbulli (che poi lo sono anche quando ci mettono nome e cognome), ma questa è un’altra storia.

Posted in la tanaTagged abuso sessuale, psicoterapia, scrittura, stupro

narrarsi

Posted on 2020/03/30 - 2021/03/17 by queerwolf

chi soffre di disturbi d’ansia o di depressione spesso è consapevole del potere della narrazione personale. dopo un attacco, quando si trova il tempo di mettere a nudo il meccanismo che l’ha scatenato, la sproporzione delle sue meccaniche diventa evidente: no, non è vero che non vali niente, che non meriti l’amore di nessuno, che sei un fallimento. che il tuo corpo è fragile, che non hai forza emotiva, che le tue opinioni non valgono. sono cose che si possono capire dopo, ma che sul momento sono assolutamente vere e più reali di qualsiasi dato oggettivo o rassicurazione si riceva. e queste idee alimentano il meccanismo autodistruttivo che porta poi all’attacco d’ansia o di panico o all’acuirsi dello stato depressivo. la narrazione personale è distorta, esageratamente negativa, ma diventa l’unica cosa vera. sul momento è difficile rendersene conto perché il cervello è una macchina di infinita caoticità: anche a voler esser completamente presenti a noi stessu, vengono elaborati centinaia di messaggi al secondo che leggiamo e immagazziniamo secondo i bias che abbiamo sviluppato. se la nostra narrazione personale è condizionata dalla lente di un giudizio negativo, il risultato possibile è solo uno.

si può imparare molto in questi giorni dalle persone non neurotipiche, perché quello che sta accadendo fuori, politicamente, è molto simile al vissuto interiore quotidiano, allo scontro con il poliziotto mentale che arbitrariamente accusa e punisce. gli input esterni sono violentemente colpevolizzanti. la scelta politica è stata di renderci colpevoli di ogni singola morte o infezione, invece di prendersela con gli effettivi responsabili. siamo dei mostri per una spesa in più, per aver allungato la strada dal supermercato a casa per goderci due raggi di sole. per aver messo in discussione le motivazioni del Buon Padre della Patria che si prende cura di noi pecorelle smarrite e incapaci.

ci vuole molta forza e un background critico notevole per poter far sì che il nostro cervello filtri questi messaggi e li legga per ciò che sono: stronzate. e la maggior parte di noi purtroppo non ha avuto modo di sviluppare questa capacità, anche e soprattutto perché la società competitiva e individualista che ci ha cresciutu ci ha abituatu all’idea che ogni fallimento o errore sia una colpa personale, che lo star male sia segno di un’incapacità vergognosa, che non esistano responsabilità collettive e sociali.

per questo è fondamentale in queste giornate insane fermarsi e concedersi del tempo per ascoltarsi, per capire qual è la propria narrazione personale: come mi sto vedendo, come mi sto descrivendo? come penso che mi vedano le altre persone? quali azioni sto limitando perché ho paura? ascoltiamo e poi smontiamo con rispetto e tenerezza verso noi stessu quei finti dati di fatto che abbiamo sviluppato in queste giornate assurde, e ricordiamoci che questa è l’unica vita che abbiamo e che nessuno, men che meno un Buon Padre della Patria ed i suoi sgherri armati possono dirci come sia giusto viverla. potremo costruire nuove utopie solo se sapremo uccidere il poliziotto interiore.

Posted in la tanaTagged narrazione, poliziotto interiore, utopia

il gioco del privilegio

Posted on 2020/03/22 - 2021/03/17 by queerwolf

facciamo un gioco, un gioco piccolino.
il gioco ha un obiettivo, ma non è quello che può sembrartial primo colpo. non serve per farti sentire in colpa, ma per empatizzare. è una specie di lista (parziale, parzialissima) di esperienze altre, giusto per aiutarci a fare due conti e capire perché in questi giorni ci sono persone che magari non fanno quello che viene ordinato dal governo ma per questo non sono cattive, sono solo diverse da te, hanno bisogni o necessità (e non sfizi) che non sono stati considerati.

il gioco si chiama “qual è il tuo privilegio?”, dove “privilegio” è il termine centrale: la quarantena ha fotografato una situazione ben precisa, dividendo in modo netto chi ha potuto o meno avere un certo tipo di certezze, di sicurezze a cui appoggiarsi in questi giorni, e chi no. e per quanto ci farebbe piacere pensare che siano tutte merito nostro, la fetta maggiore di ciò che abbiamo viene dalla famiglia di origine, da dove siamo nati, dalle persone che abbiamo incontrato o anche solo dalla fortuna.

(la lista è in espansione, commenta e suggerisci pure)
(avevo il bisogno di inserire anche delle cavolate, perché non sto più reggendo l’atmosfera pesante di queste giornate)

1) ho una casa di proprietà +3
2) ho una casa +2
3) non è un monolocale o uno spazio piccolo condiviso con tante persone +2
4) ho un giardino/terrazzo per prendere un po’ di aria +2
5) né io né le persone con cui vivo dobbiamo uscire per lavorare +3
6) non ho vicini che fanno un casino immenso +1
7) ho un lavoro a tempo indeterminato con smart working +3
8) ho un lavoro a tempo indeterminato +2
9) il mio lavoro mi piace +3
10) vivo solu, e mi sta bene +3
11) vivo con chi amo, e stiamo bene assieme +2
12) ho dellu figliu e non sembrano possedutu dal demonio +2
12 bis) i miei vicini hanno dellu figliu, e non sembrano possedutu dal demonio +1
13) ho strumenti per comunicare con le persone care, distanti +2
14) le persone a cui tengo stanno bene +3
15) sono giovane e in salute +3
16) non soffro di disturbi d’ansia, depressione, o altri disturbi mentali +3
17) non ho problemi di salute che potrebbero incasinarsi col Covid19 +3
18) la mia mobilità non è compromessa +3
19) ho dei risparmi +3
20) ho avuto tempo libero negli anni per sviluppare delle passioni, e posso viverle anche in casa +2
21) vivo in una città con tutti i servizi +3
22) non mi è complicato procurarmi del cibo +3
23) non sono in un luogo isolato dal mondo +2
24) ho un mezzo privato per spostarmi, o i mezzi pubblici sono frequenti +2
25) non dipendevo già da prima da qualcuno per le mie scelte +3
26) ho una formazione tecnologica sufficiente per sentirmi meno isolatu, per informarmi in modo corretto +2
27) la mia etnia non mi rende oggetto di discriminazioni +3
28) la mia sessualità non mi rende oggetto di discriminazioni +3
29) non sono in Confindustria (e quindi posso guardarmi allo specchio e volermi bene) +3
30) ho un cane (che in queste giornate è un vero e proprio bonus) +3
31) non ho bisogno di vicinanza fisica per tenere a bada il mio cervello +3
32) so decidere cosa mi fa o non mi fa bene +2
33) non soffro di dipendenze +3
34) non ho avuto problemi di dipendenze, e ora non devo temere che possano tornare +3
35) non mi fanno paura le forze dell’ordine +3
36) ancora non trovo Conte sexy +1
37) la mia passione per gli horror mi aveva già preparato a tutto questo +2
38) ho vicino delle strutture sanitarie adeguate (LOL, il SSN è stato smantellato da politiche neolib trasversali) +0

39) so difendermi dal sempre più forte controllo tecnologico +2

risultato:
quale che sia il risultato, prova a pensare a come puoi mettere i tuoi privilegi a disposizione di chi non ne ha. anche cominciando con il difendere le loro posizioni su social che sono diventati aggressivi e violenti, raccontare le loro storie. dare voce a chi non l’ha, pretendere soluzioni per loro è la cosa migliore che tu possa fare in queste assurde giornate.

(i numeri li ho messi più o meno a caso)

Posted in la tanaTagged empatia, gioco, privilegio

di narrazioni, decreti ed empatie

Posted on 2020/03/14 - 2021/03/17 by queerwolf

sono giorni che desidero parlare dei limiti delle misure di contenimento prese dal Governo. critica non in merito alla potenziale o meno efficacia, quanto su tutto quello che non tiene in considerazione, all’immaginario (perché alla fine CCCP parla di quello) che si porta dietro.
però ho paura di farlo, perché in questi giorni non c’è modo di muovere un’obbiezione senza rischiare l’insulto. qualcosa di timido su Facebook l’ho pure fatto, ma è stato un macello.
col cervello in questi giorni masticato dall’ansia, ci ho messo un po’ a rendermi conto che le due cose sono correlate: i limiti, e chi ora attacca chiunque non segua in modo ligio le regole imposte (come giustamente ricorda Luca Casarotti su Jacobin, imposte più con il linguaggio della paura che con quello legale).

il governo ha deciso di congelare il paese in un momento X: prima ci si poteva muovere, da quell’istante non più.
questo perché buona parte dell’esecutivo è composto da persone benestanti, bianche, etero, cis e neurotipiche. persone che, se vivono una qualche forma di limite, possono aggirarlo o aggiustarlo coi soldi, o usare il loro potere per superarlo o almeno sopravviverne. persone per cui ogni momento della giornata, dell’anno è in una zona di comfort. un po’ come chi sta puntando il dito contro ogni comportamento in deroga al decreto o contro le critiche.
persone che hanno dei risparmi, o contratti sicuri, o casa di proprietà (o casa e basta). che non hanno problemi di salute. che vivono da sole, e ci stanno bene. o che vivono con persone con cui hanno per lo meno rapporti civili. persone la cui idea di “bene comune” coincide con il proprio, di bene. che risolvono il problema dei negozi chiusi ordinando su Amazon o facendosi spedire il pranzo da Deliveroo, senza rendersi conto del privilegio che permette loro di essere a casa e non rischiare, scaricando quel rischio addosso agli altru lavoratoru che portano merci, che consegnano il cibo senza contratti né sicurezze.
sono dell’idea che sempre e ancora più nei momenti di crisi sia un dovere rendersi conto dei limiti della narrazione ufficiale, e creare nuovi immaginari che possano far star bene tuttu. ritornare a pensare come comunità, e non come piccoli elementi isolati.

in questi giorni ho letto di un sacco di persone che hanno pagato questo immaginario stretto, piccolo, borghese, e tuttu quel qualcuno che potevano essere noi, potevano essere me.

posso essere io quellu coi genitori che si fanno il mazzo a Crotone per permettermi di studiare a Milano, genitori che tempo zero si sono ritrovati senza lavoro. r allora sarei statu tra quelle persone scese in fretta e furia dal nord verso il sud, perché l’alternativa sarebbe stata di rimanere senza né casa né cibo. ma tu mi avresti voluto bloccatu lì.posso essere io ad avere un coniuge violento da cui ora non posso scappare, menatu a sangue ancora e più di prima, che le sue tensioni ora non le può manco scaricare al bar. e tu mi avresti denunciatu per due passi senza meta fuori casa.
posso essere io quellu denunciatu perché senza fissa dimora, perché nessuno ha pensato che non è che tutti abbiamo una casa. e la chiamata avresti potuto farla tu.
posso essere io quellu con disturbo depressivo bloccatu in casa con una famiglia che pensa che su, dai, sei solo senza voglia di fare, muovi il culo. e tu davanti ai miei sfoghi disperati avresti scritto “Siamo tutti nella stessa barca, smettila!”.
posso essere io quellu con il disturbo d’ansia e che ora non posso vedere le persone che mi fanno del bene e che no, cazzo, non è uno sfizio, perché rimanere in casa è una tortura, i pensieri si accavallano e alterano il reale e tutto ciò che è più doloroso diventa vero, anche se non è mai accaduto. e tu quando leggerai della mia multa perché scappatu da casa in preda ad un attacco di panico dirai “Che egoista coglione di merda”.
posso essere io quellu chiuso in prigione senza sapere come stanno i miei parenti, ammassatu con altri corpi, con le guardie coi nervi a fior di pelle che continuano a dire che Tiziu sotto di me ha solo un po’ di influenza, è solo influenza. e tu dirai “Se eri in prigione c’è un motivo, ben ti sta”.
posso essere io quellu che va a lavoro senza contratto, o con la febbre, perché non posso pagarmi l’affitto e il cibo sennò, e mi spiace, ma mi è stata data la scelta se ammalarmi o morire di fame. e mentre tu ritirerai il tuo panino che ti ho consegnato, mi darai 20 centesimi di mancia sentendoti lu miglioru.

se Conte avesse detto “Solo il padre di famiglia può andare a lavoro”, avresti (spero) protestato. eppure questa frase non troppi decenni fa sarebbe stata lecita. ora non lo è perché in parte (mai abbastanza) la narrazione del ruolo della donna è cambiata.
e per questo è necessario mettere in discussione gli immaginari attuali e proporne di nuovi, approfittare della crisi per evidenziare ciò che non va, e fare in modo che domani le cose siano migliore per tuttu, non solo per chi è come te.

per farlo, serve empatia.

continuo ad essere ottimista. sono sicuro che sia la paura a farti fare certe cose, la paura di non sapere cosa ci sarà domani, paura che è anche mia. e per questo credo che anche tu voglia cambiare la tua, di narrazione, e uscire da Homo homini lupus, da questo romanzo collettivo che è solo uno dei tanti, non l’unica soluzione.
scriviamo assieme qualcosa di migliore.

Posted in la tanaTagged coronavirus, empatia, narrazione

linguaggio, genere e CCCP

Posted on 2020/03/08 - 2021/03/17 by queerwolf

la grammatica non è un monolite intoccabile, ma porta con sé i bias di chi l’ha pensata, diffusa e normalizzata. la nostra è stata prodotta principalmente da uomini bianchi eterosessuali con una visione del mondo drasticamente binaria e maschilista.
di contro, ogni decisione di rottura crea scontento perché diventa parziale a sua volta, e frutto di una posizione ben precisa.
la posizione ben precisa del pack è che in ogni occasione possibile prenderemo le parti di chi ha meno voce e rappresentanza.
e quindi.

il pack rifiuta l’utilizzo del maschile come genere neutro. il pack si impegna inoltre a ricordare al mondo che le identità di genere non si concludono nella binarietà femminile/maschile, e per questo non si accontenterà di moltiplicare sostantivi e aggettivi (es: benvenute e benvenuti).
abbiamo inoltre la consapevolezza che l’asterisco ha una funzione politica potente, perché mette graficamente in evidenza il problema, ma è poco funzionale dal punto di vista del linguaggio parlato. e le persone non binarie non esistono solo sulla carta o tra i bit: hanno bisogno di esprimersi anche in una piazza mentre distruggono il capitalismo e l’eteropatriarcato.

per questo la scelta ricade sulla desinenza -u.
quando ci troveremo davanti a casi che prevedono suffissi diversi tra il genere femminile e quello maschile, daremo sempre la precedenza a quello femminile (che ci sono secoli di storia di debito da recuperare).
es: studente/studentessa = studentessu.

il pack ricorda che sì, all’orecchio e all’occhio non ti torneranno, suonereanno male etc etc.
ma questo accadrà prima di tutto perché banalmente non ne sei abituatu. e, secondo, il diritto ad esprimersi di tuttu viene prima del nostro gusto estetico.

 

aggiornamento a marzo 2021:

siamo passatә allo schwa. così, per ripicca verso la “u” che era troppo maschia. abbracciotti.

Posted in la tanaTagged genere, grammatica

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