ho la s/fortuna di essere una delle persone che amministra un gruppo su social innominabile dove si parla di cultura nerd in ottica di sinistra. di recente è esplosa una discussione dovuta alla presenza di una persona all’interno del gruppo che ha avuto comportamenti pesantemente sessisti in passato. senza andare nei dettagli, c’è chi si lamenta del fatto che uno spazio che si dichiara di sinistra accolga gente del genere, chi si lamenta di non sentirsi sicur* in uno spazio con gente del genere, e chi si lamenta che questa persona ha fatto un percorso e non possiamo continuare a considerarlo “gente del genere”.
una discussione su questi temi avrebbe bisogno di portare a una decisione partecipata per poter funzionare, poiché tocca una serie di principi considerati parimenti validi dalla comunità di riferimento e li mette in contrasto, a torto o a ragione. dico “dovrebbe” perché nel caso in questione non è andata così, per svariate ragioni che in buona parte non sono centrali per il ragionamento che voglio sviluppare.
non mi voglio infatti neanche mettere a ragionare di cancel culture, castelli dei vampiri, o altri concetti che ruotano intorno a questi, per quanto siano stati il nucleo centrale delle discussioni che si sono svolte, bensì del fatto che gli spazi virtuali che viviamo non sono strutturati per decisioni collettive.
tre problemi
con “strutturati” intendo dire tre cose. in primo luogo, non sono programmati in questo senso. esistono lu admin, e poi il resto dell’utenza. non ci sono strumenti pratici di distribuzione del potere. non ci sono strumenti per permettere a ogni spazio di decidere a sua volta i propri meccanismi decisionali. ecc ecc.
queste sono scelte architetturali volute, o talvolta sono decisioni implicite, prese in maniera acritica da una storia informatica, nata in un certo contesto, e che nessuna piattaforma ha interesse o si è mossa a cambiare. in questo senso, infatti, neanche la maggioranza delle piattaforme alternative come quelle del fediverso si muovono sulla questione, e in questo come in vari altri aspetti copiano ciò che già esiste. dentro uno spazio possiamo inventarci dei modi per gestire la situazione, ma nel farlo dobbiamo spesso lottare contro lo strumento, invece che usare lo strumento. la questione della “bandierina bianca” di bida è un buon esempio secondo me: è una decisione interna, ma che non ha degli strumenti tecnici che la supportino, né per spingere a usarla, né per rispettarne il funzionamento.
in secondo luogo, e questo aspetto è stato dibattuto spesso, il mezzo di comunicazione virtuale è molto limitato e riduce l’empatia. mancano infatti in esso vari elementi che troppo spesso sottovalutiamo (tono della voce, sguardo, espressione, gestualità, posizione del corpo, anche solo la presenza fisica e visibile), e che diminuiscono drasticamente l’aspetto empatico che può permettere la ricomposizione tra necessità diverse, o addirittura che è essenziale per farlo.
infine, un luogo virtuale ha la caratteristica che può essere partecipato da un grande numero di persone. con più di 800 partecipanti, come nel caso di cui sopra, la struttura fisica più vicina che ci si può immaginare è quella della piazza. ed è impossibile una discussione davvero partecipata in una grande piazza, dove sappiamo che le voci che si sentono sono quelle che urlano, e quelle delle figure con maggiori doti carismatiche, e che non c’è ragione per cui coincidano con quelle che portano a un miglioramento. forse in questo senso si torna nuovamente al discorso del modello che si è programmato, perché indubbiamente ci sono tanti altri modelli di strutturazione del discorso (molti dei quali inesplorati) che vanno in direzioni diverse.
futuri
alla fine della fiera, un punto importante per me è quello di avere delle proposte. dire “così non va” è utile, ma limitato. abbiamo molto bisogno di pars construens, e in ambiti ben più importanti di quelli dei social, si parlerebbe di immaginare il futuro. come mi faceva notare queerwolf, che spesso si trova a dibattere su questioni queer e femministe in ambito di costruzione degli immaginari, non è tanto la critica alle proposte che vengono avanzate a essere problematica (d’altronde molte di queste proposte sono per forza di cose estremamente nuove, e quindi è inevitabile che abbiano dei difetti), quanto piuttosto la mancanza di nuove proposte che vadano a risolvere i problemi che stanno dietro. per prendere un esempio attuale, mi puoi anche scrivere un saggio sui motivi per cui lo schwa non è una buona soluzione per un linguaggio inclusivo, ma se poi tutte le tue energie analitiche le utilizzi per la critica invece che per produrre una soluzione migliore, allora il tuo saggio te lo potevi tutto sommato anche risparmiare.
quindi delle idee le abbozzo qui, anche se so che non ho i mezzi per realizzarle, né ho idea se possano funzionare. ma d’altronde se ci fosse certezza su cosa funziona o meno, non saremmo ancora qui a lamentarci a vicenda, no?
la prima è, appunto, strutturale. la tensione tra la grande piazza, lo stato, la comunità estesa, e le piccole comunità, i gruppi di interesse stretti e locali, c’è da tanto nel ragionamento di sinistra, sia come preferenza per uno degli estremi, sia come tentativo di conciliare questi modelli. a livello social non abbiamo fatto molto. se è vero che i gruppi di discussione possono essere considerati una forma di gerarchia a un livello che permette di ritrovarsi su tematiche condivise, quando un gruppo diventa così enorme ci avviciniamo di nuovo a una dimensione forse troppo ampia. ad esempio un gruppo nerd di sinistra può sembrare un ambito ristretto, in realtà poi al suo interno si può scoprire che le istanze femministe nel mondo nerd sono vissute in maniera diversa dalle persone che lo partecipano, quelle queer anche, ma anche quelle comuniste o anarchiche. sarebbe bello trovare un modo per strutturare le conversazioni in ambienti più piccoli e fluidi che si possano creare, fondere e disperdere nuovamente piuttosto che in grandi piazze rigide. se vogliamo raccontarcela in modo pretenzioso: delle strutture rizomatiche invece che gerarchiche. come? non ne ho davvero idea. costruire la visualizzazione dei topic di discussione intorno a dei tag invece che dei gruppi? la possibilità di creare sottogruppi e gruppi paralleli di conversazione in libertà mantenendo una connessione? altro? in questo senso esperimenti come scuttlebutt sono interessanti nella loro totale fluidità (che però al momento non offre neanche nulla che permetta poi effettivamente di organizzare, esplorare e modellare lo spazio informativo).
poi c’è il discorso degli strumenti di amministrazione. la struttura che al momento definisce la stragrande maggioranza degli spazi è sostanzialmente a due livelli: chi amministra, e chi fruisce. sarebbe davvero interessante se ogni gruppo di persone potesse decidere da sé e collettivamente, nel momento in cui decide di creare uno spazio, quali regole impostare in quello spazio. cosa è presente nello spazio, e cosa no. quali sono le regole di approvazione dei contenuti, quali flussi si possono seguire, in che condizioni i contenuti rimangono o vadano eliminati, e via dicendo. in questo vedo in particolare due evoluzioni interessanti:
- la meta-amministrazione: tra le regole di amministrazione ci sono anche dei meccanismi che definiscono come si possono cambiare o meno le regole di amministrazione, per permettere così una evoluzione degli spazi a seconda di chi li vive
- libera scrittura di regole: una regola non è altro che del codice; al momento mi sto interessando a una serie di idee e tecnologie (come le object capabilities o le secure extension di javascript) che tra le possibilità hanno proprio quella di fornire definizioni di comportamento con una granularità completamente personalizzabile e in piena sicurezza.
nel complesso, l’idea è che la possibilità di scrivere da sé le regole, condividerle, e decidere quali e come implementare permetterebbe una gestione anarchica degli spazi virtuali.
rischia di diventare incredibilmente irreggimentato? assolutamente. rischia di diventare un server anarchico di minecraft (dove vale la definizione negativa e sbagliata di anarchia)? pure. oppure no. boh.
infine, trovare dei meccanismi anonimi di espressione emotiva associata a una conversazione. il cuoricino e i like e tutto il resto di social innominabile sono modi di esprimere approvazione e supporto alla persona o al testo, e così riceverli in maniera nominale fornisce un input spesso importante per la persona, secondo quei meccanismi malati di induzione dopaminica che tanti social sfruttano. ma se non ci concentrassimo sui singoli, e ci chiedessimo cosa ti ha lasciato una conversazione nel complesso dopo averla letta? se arrivassi su una discussione dove il mood principale è di incazzo, mi verrebbe ancora da fornire la definizione esatta di “rizomatico” perché secondo me è stato travisato il contenuto di questa intervista di deleuze, oppure in quello specifico caso passerei oltre e cercherei di cogliere il problema espresso invece che la sua forma? se vedessi che il mood principale è triste o scoraggiato, mi metterei a cacciare insulti tra le righe a chi ci partecipa invece di cercare delle soluzioni costruttive? chissà, forse sì. l’empatia umana è una roba strana. però sicuramente l’abilità di “read the room” è molto limitata con gli strumenti attuali.
per chiudere
sicuramente mancano tanti elementi da questo mio ragionamento. ci sono tante cose che non ho letto, e tanti aspetti che non conosco: per dire, ci sono molti testi del gruppo ippolita che devo davvero leggere, perché hanno fatto un sacco di ricerca sul tema. prendiamola così: come una testimonianza di un’esperienza vissuta e una serie di ragionamenti che ne sono scaturiti, e che possono andare ad aggiungersi, complementarsi o essere smentiti da tanti altri che si trovano in giro.