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creepy cute commie pack

  • what the pack?!?

Categoria: chihuahua

perché narriamo l’altrә?

Posted on 2021/04/23 by queerwolf

perché decidiamo di inserire nelle nostre storie personaggi di gruppi marginalizzati?

 

qualche settimana fa, durante un corso, ho avuto la fortuna di ascoltare Djarah Kan parlare di rappresentazione delle persone nere nelle narrazioni, e a un certo punto ci ha chiesto: “ma perché voi volete parlare di persone nere? qual è il vostro obiettivo? cosa volete raccontare?”

già: perchè?

 

quella lezione mi ha mandato in tilt. mi chiedo spesso come posso rappresentare chi vive esperienze lontane da me, ma mi sono chiesto di rado se posso farlo. come questa domanda mi si affaccia alla testa parte un effetto tipo reduce del Vietnam, con le urla di chi dice che non si può più dire nulla allora, che un maschio bianco cisetero può parlare solo di sé stesso etc etc etc (storia vera e reiterata, sob). e, soprattutto, posso pure impegnarmi a “stare sul pezzo”, ma alla fine una parte di me è arrogantella ed egoista e pensa subito che “ehi, gli altri è il caso che non scrivano di esperienze che non conoscono, ma io sono sul pezzo, mi informo, leggo, ascolto, quindi posso farlo”. shame on me.

la risposta istintiva alla domanda di Djarah è: perché è giusto, e perché voglio mettere a disposizione il mio potenziale privilegio (quello di una sperata futura pubblicazione) a vantaggio di chi potrebbe non goderne.

ma se è questo l’obbiettivo, possono esserci soluzioni diverse, che vadano verso una direzione il più rispettosa possibile dei gruppi marginalizzati?

 

parlandone con unә amicә qualche settimana fa, questa persona ha detto la cosa che dal mio punto di vista chiude già il dibattito: l’esperienza di un’altra persona non è qualcosa che si può imparare, che si può studiare. posso pure passare tre anni a leggere testimonianze sull’ONIG e sulla vita di una persona trans non medicalizzata, degli effetti del binder sulla schiena e dell’euforia di genere, ma non posso capire cosa voglia dire essere una persona trans. posso essere spocchioso come Jonathan Franzen e studiarmi la tettonica a placche per tirarti giù paginate noiosissime solo perché mi credo figo, ma non posso fare la stessa cosa con la vita delle persone.

e visto che la rappresentazione di molti gruppi marginalizzati è scarsa, ogni personaggiә X nerә, trans, queer, disabile avrà un’enorme responsabilità, perché (purtroppo) sarà l’unico contatto verso quelle esperienze per un sacco di lettricә. anche partendo dalla mia esperienza di frocio con sempre più dubbi sulla propria identità di genere, posso contare sulle dita di una mano le volte in cui mi sono visto rappresentato davvero in modo sincero e rispettoso, in cui non ho visto personaggi gay essere trasformati in macchiette, in vittime, o in cloni degli etero. ci sono anche quelle retoriche che nascono con le migliori intenzioni ma che sono problematiche, come “l’amore è amore” o “ci sono ennemila specie omosessuali, ma solo una omofoba”. per le persone trans c’è il problema del “natә nel corpo sbagliato”. c’è trasversalmente lo sguardo pietista, la necessità di giustificare le vite delle persone non normate attraverso la sofferenza, trasformando le nostre storie in pornografie del dolore. sono narrazioni che emergono da ambienti “alleati”, nate pensando di dare una mano, ma che finiscono per creare nuovi problemi perché reiterate senza capire cosa realmente sia quell’esperienza.

anche per questo, gira che ti rigira, l’unica soluzione coscienziosa che trovo è: metterci da parte e fare in modo che ognuna di queste persone possa parlare il più possibile, che la sua voce abbia il volume più alto. che scriva la sua storia. spendere le energie che abbiamo per fare in modo che accada, invece di lamentarci che non possiamo dire più nulla.

 

anche perché, non è vero: possiamo continuare a narrare il razzismo, sessismo, omolesbobitransfobia, abilismo etc attraverso la nostra esperienza (che non vuol dire metterci al centro della narrazione).

se vogliamo davvero essere alleatә, abbiamo un grosso vantaggio da condividere, che è quello di narrare il modo in cui anche ә più woke tra noi collaborano al mantenimento di un sistema repressivo verso i gruppi marginalizzati. posso mostrare il razzismo che porto dentro di me, la mia transfobia, la mia omofobia, il mio sessismo. non è niente di nuovo e l’abbiamo ripetuto più volte anche qui: possiamo essere sul pezzo quanto ci pare, ma viviamo in una cultura fortemente repressiva, e quei pensieri si infilano costantemente nella testa. la colpa non è nel primo pensiero, ma in come agiamo poi. da maschio posso mostrare il modo in cui la performatività della mia identità di genere sia tossica, avveleni me e gli altri uomini che ho accanto. da bianco posso mostrare le ingiustizie del quotidiano che vanno a mio vantaggio, o i miei silenzi davanti all’ennesima battuta razzista di unә collega. non serve scomodare personaggi con esperienze che non ho vissuto per parlare di queste tematiche. sono convinto che sia una scelta importantissima, perché (come mi lamentavo qui) molto spesso nelle narrazioni chi agisce in modo razzista, sessista etc è così fortemente caricato in modo negativo da creare un’enorme distanza con chi esperisce la narrazione, permettendolә di pensare che quindi lәi non sia complice, partecipe del sistema di oppressione trasversale. mostrare personaggi comuni, tridimensionali, con pregi e difetti che portano avanti la propria vita e, inconsapevoli, continuano a tenere in piedi un sistema oppressivo, è il servizio migliore come narratricә che possiamo fare a chi continua ad essere spintә al margine.

 

sono consapevole che sia un tema complesso, e che i temi complessi richiedano risposte articolate. ci sono un sacco di dubbi che rimangono aperti: dove posso tracciare il confine tra le esperienze che posso capire e quelle che non? come creo un mondo plurale senza fare disastri? cosa posso fare con il weird per affrontare queste tematiche (e vorrei tornarci)?

vorrei una risposta sicura, ma non la ho. probabilmente tornerò tra un mese con un’idea totalmente diversa. però so una cosa: collaborare alla costruzione degli immaginari, delle narrazioni è un onore. non deve per forza essere facile. ma se proviamo ad ascoltare i bisogni di chi vive il margine sulla propria pelle ogni giorno, forse sarà più semplice anche per noi sapere come fare la cosa giusta.

 

abbracciotti dal pack.

 

Posted in chihuahuaTagged #identità, margine, narrazione, privilegio, scrittura

autricә imbarazzanti e cosa farne: parte due, quella leggera

Posted on 2021/03/17 - 2021/03/17 by queerwolf

eccoci di nuovo, amicә, dopo il post serioso dell’altra volta.

quindi: hai scoperto che lә tuә registә preferitә colleziona più accuse di stupro che Oscar.

che fare?

qui sotto troverai alcune proposte, più o meno condivisibili, più o meno efficaci. spesso la loro forza dipende da due fattori:

  • il primo, è se l’autricә è ancora in vita: alcuni elementi (esempio a caso: i soldi) possono influenzare il prossimo quando ha bisogno di pagare il riscaldamento del suo castello. lo fanno lә nostrә capә a lavoro con noi, perché non farlo con lә autricә imbarazzanti? considereremo vivә anche lә autricә che possono essere fisicamente polvere ma culturalmente presenti, prese ancora come modello da altrә autricә.
  • il secondo, è il modo in cui le sue idee si riflettono o meno nell’opera: ci sono autricә che riescono a mantenere un certo filtro. altrә che rappresentano mondi permeati da ideali che poi non portano nella realtà. altrә non si fanno problemi a inserire riferimenti razzisti, sessisti, omolesbobitransfobici: con un po’ di fortuna, verranno definitә dellә enfant terrible.

(parleremo per lo più di libri, ma queste soluzioni bene o male sono applicabili a ogni forma d’arte)

 

metodo Madonna, aka “Material Girl”

adatto per: autricә ancora in vita, morte con eredi meh, opere basate in modo acritico sulle opere di autricә imbarazzanti.

perché vivere in un paese capitalista deve essere solo un vantaggio per l’autricә affermatә, e non diventare un problema? facciamo allora ә ragazzә materialistә: spendiamo i nostri soldi per cioccolata, glitter e saggi di bell hooks. nel mentre se vogliamo comunque leggere le loro storie, prendiamo i libri dell’autricә imbarazzantә in biblioteca, da un’amicә che li ha già. o compriamoli usati, così da aiutare qualche poverә libraiә.

non si tratta di una scelta da poco: se qualcunә ha delle idee di merda, è probabile che coi suoi soldi favorirà idee e gruppi politici di merda. se oggi smettiamo di comprare i libri di Orson Scott Card sicuramente non morirà di fame, ma almeno la smetterà di uscire con Ben Shapiro, o di indossare quegli orribili vestiti.

lo sapevi? Orson Scott Card (autore di Ender’s Game) è orgogliosamente omolesbobitransfobo. ma tipo che non perde un’occasione per prendersela con le persone queer e trans. Orson, amica: fatti una vita.

 

metodo I racconti nel muro, aka “No mamma, non era Lovecraft ma un porno, giuro!”

adatto per: quell’autricә con cui sei cresciutә, ma.

oltre ai soldi, ә autricә imbarazzante può utilizzare fama e visibilità come merce di scambio: e chi genera quella visibilità?

sempre per il principio del personal branding, non parlare di un’autricә, soprattutto sui social, è un modo per depotenziarlә o, per lo meno, non rafforzarne la visibilità: ok, non siamo Chiara Ferragni, ma anche noi influenziamo la nostra bolla.

personalmente la vedo come un’opzione di transizione verso il metodo Ariana Grande.

lo sapevi? Michel Houellebecq è un filino islamofobico. ok, Le particelle elementari può pure essere un gran romanzo, ma perché non provi, che ne so, un China Daddy Miéville?

 

metodo Ponzio Pilato, aka “Separiamo l’opera dall’autore”

adatto per: no

sul perché, ti rimandiamo alla prima parte dell’articolo. e ti diamo un abbracciotto per essere arrivatә fino a qui: grazie.

 

metodo HBO, aka “Contestualizzare”

adatto per: no.

no, perché quando si parla di un’autrice imbarazzante, è un metodo neutrale tanto quanto il Ponzio Pilato. casualmente, l’amicә pronta a separare l’opera dall’autricә è anche lestә nel ricordarci che “dai, insomma, facevano tuttә così all’epoca”. citando Nnedi Okorafor: “il fatto che un sacco di gente all’epoca fosse razzista non cambia il fatto che Lovecraft fosse razzista”.

lo sapevi? V. S. Naipaul, autore premio Nobel per la Letteratura nel 2001, durante la sua carriera ha avuto numerose uscite razziste e misogine, fino alla fine dei suoi giorni. ma bisogna contestualizzare: era solo il 2018.

 

metodo Social Justice Warrior, aka “a questo giro non mi incazzeroooohhh! ma come puoi pensare ‘sta roba Giancoso, seriamente?!?”

adatto per: ogni tipo di autricә, ma solo se si ha molta pazienza e nessun disturbo ansioso. e qualcunә che ti consoli.

ovvero: intervenire nei post in cui si parla di quell’autricә per informare. è un lavoro emotivamente costoso, fatto a favore delle altre persone: se le soluzioni precedenti riguardano il rapporto tra te e l’autricә imbarazzante, in questo caso si tratta di far capire a chi ancora non sa che beh, insomma, lә suә scrittricә preferitә è orgogliosamente misogina. scelta non facile quando ad esempio si parla di letteratura weird, realtà discretamente reazionaria e misogina.

lo sapevi? JK Rowling, dopo diversi, ehm, accidentali like a tweet transescludenti, sta difendendo da mesi le sue posizioni giustificandole anche attraverso elementi del suo passato (ding dong: metodo HBO) che, da persona che ha vissuto uno stupro, trovo doppiamente offensivi: non si usa un’esperienza così orribile per colpire persone innocenti. non paga, il nuovo romanzo ha al centro un uomo che si traveste da donna per uccidere le donne. spoiler: l’assassino è Lars Von Trier.

 

metodo Gimme More, aka “It’s Britney, B*tch!”

adatto per: soprattutto le autricә vive. quelle che potrebbero arrabbiarsi proprio tantissimo.

internet ha creato un sacco di cose magnifiche: meme, OnlyFans, fanfiction. una delle risposte più creative allә autricә imbarazzantә è espropriarlә dei propri universi di produzione per creare storie che includano quei gruppi marginalizzati in modo rispettoso. è quello che hanno fatto Kij Johnson e Victor LaValle con Lovecraft: la prima con La ricerca onirica di Vellitt Boe ha messo una donna al centro dell’universo onirico di HP; il secondo, con La ballata di Black Tom ha affrontato la questione razziale. e poi abbiamo Lovecraft Country (libro di Matt Ruff, serie di Misha Green). personalmente, non vedo l’ora di leggere di quando Emis Killa perse il lip–sync contro Alyssa Edwards. di nuovo.

lo sapevi? Dan Simmons, autore della saga di Hyperion, è omofobo, islamofobo, e un attimino “quella cosa che in Italia non esiste più dal 1945”.

 

metodo Annabelle

Adatto per: autricә mortә ma che continuano a venire presә come modello.

bambola, tavola ouija, serata con lә amichә, buca profonda ed è fatta.

lo sapevi? sì, direi che sì, lo sai. Lovecraft. sigh.

 

metodo Ariana Grande, aka “Thank You, Next”

adattoper: qualsiasi situazione, ex inclusә.

l’abbiamo lasciato in fondo perché più che un metodo, è uno stato d’animo.

ok, carә autricә: abbiamo vissuto momenti magnifici assieme. sono cresciutә con te, hai ispirato i miei sogni e le mie partite a D&D. è stato bello, ma è ora di guardare altrove.

non è insolito che autricә spariscano per molto meno: non ce ne lamentiamo quando l’assassino è la Mano Invisibile del Mercato™, o quando gli ideali di quell’autricә sono spirati con lei:

Ricca o povera, Italia,
sei la patria mia.
Sei così bella che somigli alla mia mamma.

Renzo: Thank You, Next.

anche la migliore delle amicizie può finire, compresa quella con un’autricә: arrivederci, e grazie per tutto il pesce.

 

e quindi

Google ci dice che al mondo ci sono 129.864.880 opere diverse da leggere. anche con tutto l’impegno, potremo leggerne durante la nostra vita lo 0,005 % (fa male, lo sappiamo).

di libri magnifici scritti da autricә non imbarazzanti ce ne sono a quintali.

vuoi avere terrore? chiudi Howard Potter Lovecraft e perditi tra i racconti di Thomas Ligotti.

vuoi leggere di adolescenti indimenticabili e lezioni di magia e di vita? dimentica i libri della Regina delle TERF e perditi tra le pagine di Akata Witch e Akata Warrior di Nnedi Okorafor.

vuoi un fantasy epico capace di parlare di razzismo lungo trame grandiose? innamorati di N.K. Jemisin e della sua trilogia La Terra Spezzata, e lascia Silvana de Mari sola coi suoi sproloqui.

se il tuo cuore brama il futuro, ignora quello di Orson – penso più ai gay degli stessi gay – Scott Card e affidati agli imperi di Ann Leckie, dove AI senzienti sanno empatizzare col prossimo più di moltә autricә.

e ancora: ci sono tre continenti che ignoriamo per la maggior parte della nostra vita, salvo forse per cercare una vacanza esotica. vuoi che non ci siano autricә magnificә che hanno avuto solo la sfortuna di non esser natә da questa parte del globo? lavoro e capitale già rendono le nostre vite soffocanti: allarghiamo il nostro sguardo.

 

visto che l’abbiamo citata più volte, vorremo concludere con una citazione di Nnedi Okorafor, tratta da una riflessione che ha fatto quando si è ritrovata in casa il busto di Lovecraft, premio vinto per il Miglior Romanzo ai World Fantasy Award del 2011:

“Lovecraft probabilmente si sta rotolando nella tomba. o, forse, diventato spirito, la sua mente si è ripulita dal veleno e ora comprende gli errori del passato. magari è felice che un libro ambientato e su un’Africa nel futuro abbia vinto un premio realizzato in suo onore. sì, è quello che voglio immaginare”.

e se gli spiriti possono cambiare, possono cambiare pure lә lettricә.

alla prossima, amicә.

Posted in chihuahuaTagged J.K.Rowling, Lovecraft, narrazione, Nnedi Okorafor, scrittura

autricә imbarazzanti e cosa farne: parte uno, quella seria

Posted on 2021/03/07 - 2021/03/17 by queerwolf

Sulla Creazione dei Ne*ri

Quando, tempo addietro, gli dèi crearono la Terra

Sulla bella immagine di Giove l’Uomo venne plasmato alla nascita.

Le bestie minori vennero poi ideate;

Ma erano troppo distanti dall’umanità.

Per riempire il vuoto e collegare il resto all’Uomo,

Gli ospiti dell’Olimpo han congegnato un piano intelligente.

Una bestia hanno forgiato, di foggia semiumana,

Colmandola di vizi, e chiamando questa cosa un Ne*ro.

 

se in un gruppo di appassionatә del weird definisci H.P.Lovecraft razzista o misogino, arriva subito la polizia MBEB ad arrestarti: reato di incapacità di contestualizzazione, di “non capisci che era normale all’epoca?!?” e via di seguito. a volte arriva qualcuno che ti dice: “eh, ma la poesia (quella qui sopra) è del 1912! poi è cresciuto”. dimenticando che, e.g, per farci capire che il Wilbur Whateley de L’orrore di Dunwich (1928) era bruttissimo, Lovecraft ci dice che aveva delle bestiali grosse labbra e i capelli crespi e arruffati. il razzismo pervade la narrazione lovecraftiana, così come le posizioni transfobiche di Rowling emergono nel romanzo più recente. il pack si prenderà un paio di post per ragionare su cosa questo significhi, su come possiamo agire. e sul perché sia urgente fare qualcosa.

 

l’MBEB police obietta

facciamo le cose a ritroso, partendo dall’obiezione più frequente quando l’argomento viene messo sul tavolo. c’è chi parlerà di censura, chi di cancel culture. chi griderà dicendo che oramai non si può più dire niente, e chi che basta separare l’opera dall’autore.

l’ultimo è un mantra comune quando il discorso cade in ambiti “dotti”.

questa posizione si appoggia sulle idee di Roland Dexter Barthes. Roland Barthes è stato un critico letterario e semiologo francese di orientamento strutturalista (lettura di Wikipedia: achievement unlocked).

stanco di vedere una critica letteraria che analizzava le opere attraverso il contesto e la vita dell’autricә, Roland un giorno lancia il tavolo per aria e dichiara: una volta stampata, l’opera è dellә lettricә. un’opera esiste a prescindere dallә suә autricә, e tutto quello che verrà affermato in seguito da lәi varrà zero. “l’autricә è morta” sogghigna Roland, ululando alla luna.

quindi Barthes ci dice: davanti ad un’autricә imbarazzante si prende l’opera, si ignora ciò che non è nel testo, amichә come prima. il pack è un po’ meno convinto, e quindi eccoci prontә a borbottare contro l’amico francese. per farlo seguiremo le riflessioni di Lindsay Ellis.

per Lindsay, ciò che dice Roland funziona in una campana di vetro: ricevo un testo nudo, privo di copertina, sinossi, pubblicità. non ho idea di chi sia l’autricә, delle opinioni del resto del mondo su questo romanzo. allora forse saprò non metterci altri pregiudizi, solo la mia fantasia.

 

il quotidiano in cui viviamo però è ben diverso.

l’autricә è vivә e molto attivә: su Facebook ci racconta cosa mangia, su Youtube cosa legge, e usa Twitter per parlare di politica.

l’autricә va in televisione e ai festival, presenzierà alla prima del suo film, racconterà i nuovi elementi del videogioco o della serie televisiva a cui ha collaborato.

il paratesto è pervasivo, e influenza il modo in cui ci approcciamo al testo. moltә autricә creano un vero e proprio personal branding, e questo fa sì che quando ci approcciamo a un testo di Baricco, e.g., troveremo roba spocchiosa e fastidiosa troveremo cose fortemente sovrapponibili al modo in cui fa critica, alle cose che scrive sui giornali, che dice durante i festival.

questo accade persino quando non sappiamo nulla dell’autricә: quante persone hanno costruito tesi complessissime sull’identità di Elena Ferrante, cercando di dedurla da uno specifico riferimento geografico o linguistico nei suoi romanzi?

da quando è uscito l’ultimo romanzo di T.E.Rfowling, le recensioni sembrano lanciate principalmente nel comprendere se il serial killer sia o meno una riconferma delle recenti posizioni dell’autrice (spoiler: sì, linko due video in merito).

autricә e testo si influenzano a vicenda, amplificando i rispettivi valori. Roland Dexter Barthes pulisce un coltello con cui ha solo ferito l’autricә, ma questә è vivә e felice.

 

bias

non c’è solo il problema del paratesto.

 

una lettura capace di dividere opera e autricә richiede unә lettricә capace di riconoscere e affrontare non solo i bias dellә scrittricә ma anche i propri. ed è un lavoro complesso, estenuante, che crea un disagio spesso difficile da gestire.

 

tuttә noi cresciamo in una cultura fortemente misogina, razzista, aggressiva verso le diversità. questi messaggi vengono reiterati ogni giorno attraverso la politica, i mezzi di informazione, di intrattenimento, le opere artistiche. le battute abiliste e omofobe sono così normali che se qualcunә ci fa notare che ne abbiamo detta una, ci mettiamo sulla difensiva.

questo mettersi sulla difesa è comprensibile, perché chi ci fa notare i nostri bias prima o poi solleciterà il senso di colpa: per permetterci di sentirci delle “brave persone”, le maglie sociali si sono fatte così larghe che ci aspettiamo di poterci ritenere, e.g. , non razzistә solo perché non usiamo la parola con la n, ma poi ci offendiamo quando la nostra vicina afrodiscendente ci dice infastidita che “No, i miei non sono africani ma etiopi, e io sono di Casalpusterlengo, smettila di chiedermi da dove vengo”.

le persone principali che possono mettere a nudo i nostri bias sono quelle che fanno parte di quella minoranza marginalizzata. ma quando queste persone mettono l’accento sull’elemento problematico, spesso vengono attaccate e definite immature, con un eccesso di attenzione per le proprie emozioni. oppure prive di basi teoriche. responsabili di distrarci dalle lotteveramenteimportanti™.

perché voler decostruire un sistema che ti uccide solo perché sei fr0cia, effettivamente, non è una lotta importante.*

 

e quindi, al di là della rabbia personale: non mettiamo in discussione che tu, amicә, sappia e voglia leggere l’opera in modo davvero neutrale. e che davanti al disagio che provi quando qualcunә ti farà notare un tuo pregiudizio mentale abbraccerai quel disagio, lo decostruirai, lo supererai. ma la maggior parte delle volte, quando ci ritroviamo davanti alla frase “separiamo l’opera dall’autore”, l’impressione è che sia solo un modo intellettuale per dire “il mio godimento dell’opera viene prima della vostra sicurezza”.

 

“basta moralizzatricә!”

collateralmente un’altra obiezione al discorso è legata al terrore che l’arte venga “moralizzata”, spesso evocando anche quel fenomeno che viene chiamato cancel culture.

brevemente, si intende con Cultura della cancellazione la rimozione dalla vita pubblica di persone o aziende che agiscono contro i gruppi marginalizzati. nella mente di chi è terrorizzata dalla Cancel Culture, i gruppi marginalizzati sono entità potenti (es: la famigerata Lobby Gay, le nazifemministe) che con un po’ di casino su Twitter possono far diventare Allen o Polanski indigenti. nei fatti, non sembra essere questa minaccia così concreta. ad esempio, l’Autrice Imbarazzante per eccellenza di quest’ultimo anno e rotti, J.K. Rowling, macina ancora soldi senza problemi, ha film in produzione, un altro videogioco, e sembra stia per lavorare su una serie televisiva legata ad Harry Potter.

di contro, come ha detto dichiarato in un tweet la politica Alexadria Ocasio-Cortez, non ci lamentiamo delle voci che sono da sempre cancellate: quelle di chi fa un certo tipo di politica, così come quelle delle minoranze (spoiler: provate a cercare quanti romanzi di autrici trans esistono in italiano).

 

in merito alla “moralizzazione” dell’arte invece, pensiamo sfugga un punto fondamentale: ogni opera d’arte è già di per sé portatrice di una morale, perché fa riferimento ad un insieme di norme e valori, e li considera come dati di fatto.

 

nelle narrazioni andiamo a definire sempre ciò che si oppone alla norma e mai la norma stessa, ritenendo la norma portatrice di una morale in modo implicito (mentre per l’eccezione, la prospettiva va sempre bene o male specificata): non dico che Anna e Marco vivono una relazione monogama, ma specifico che Anna, Marco e Mattia sono in una troppia. non dico che Anna è una buona madre perché si lascia morire di fame pur di salvare i suoi figli, ma giudico Lucrezia che ha preferito dare in affido il figlio che non fare una vita di merda. gli scienziati di Lovecraft sono sempre nel giusto, perché la scienza è nell’immaginario lovecraftiano intrinsecamente morale (tranne se sei Herbert West, ma allora lì viene specificato). Hermione lotta per la liberazione degli elfi, ma non per quella di Molly Weasley, perché nel mondo di Rowling (come nel nostro) è ovvio che una madre sia una schiava, e la magia serve non per liberarla da questo giogo, ma per ottimizzare il suo lavoro.

 

quando i gruppi marginalizzati mettono l’accento su determinate cose, non chiedono una moralizzazione: chiedono un cambio di prospettiva sulla morale già esistente in quell’opera e, quindi, del mondo che ci circonda.

politica e morale sono qui sovrapponibili per gli atteggiamenti presenti nel discorso comune: pensiamo alle frotte di giocatori che dicono “basta politica nei videogiochi!” quando vengono introdotti personaggi queer o razzializzati, senza rendersi conto che anche l’assenza di questi personaggi è già una scelta politica. allo stesso modo, una storia che descrive il cattivo come “con la bocca larga e i capelli ricci e crespi” è una storia moralizzata, e se chiedi di togliere la moralizzazione dall’arte, vuol solo dire che non stai vedendo quella già presente, e le conseguenze sulla vita delle altre persone.

 

ed è questa la risposta alla domanda “Perché bisogna fare qualcosa per le autrici imbarazzanti?”: perché condizionano in negativo le nostre vite, perché collaborano a mantenere narrazioni tossiche sulle comunità marginalizzate. perché collaborano all’oppressione.

perché le conseguenze sulla realtà ci sono. è una cosa che abbiamo già evidenziato altrove: le narrazioni creano il reale, e per questo ne siamo responsabili.

scrivere vuol dire agire.

torniamo a Rowling: un senatore repubblicano ha usato le sue parole per richiedere di non estendere alle persone LGBTQIA* la legge statunitense contro le discriminazioni. le parole di Rowling e la sua posizione di prestigio sono servite per appoggiare un’azione politica transfobica.

 

quando si propongono azioni (come quelle del prossimo post) in risposta a determinate posizioni, e quelle azioni vengono criticate per il semplice fatto che esistano, si sta sostanzialmente chiedendo a chi è vittima di certe narrazioni di cancellarsi.

in un assurdo gioco dei ribaltamenti, chi chiede di non moralizzare le arti chiede che la parte offesa venga silenziata, cancellata, e preserva per chi ha già potere il diritto di dire quello che vuole, senza conseguenze.

noi crediamo sia invece giusto smetterla di mettere una sola prospettiva al centro dell’universo, e imparare a ritenere valide e importanti le esperienze di chi vive in vari modi ai margini della norma, restando in ascolto.

e riteniamo sia giusto proporre una cultura della conseguenza, una cultura in cui le azioni aggressive contro chi è più esposto abbiano dei risultati.

il prossimo post parlerà (in modo più caciarone) di come creare queste conseguenze.

 

il pack vi abbraccia.

 

* tra l’altro, così si chiede a chi fa parte di una comunità marginalizzata di trovare energie per creare il proprio benessere (che il mondo fuori ostacola in tutti i modi),  per chiedere al mondo di riconoscere la sua esistenza, e  per portare avanti un confronto con persone a cui spesso non importa un granché della faccenda, che si sono già attestate su posizioni comode perché per loro, alla fin fine tutto questo non rimane che un gioco intellettuale che non comporta alcun rischio. e se, sotto tutta questa pressione, la persona in questione sbarella un attimo, finisce subito in un rogo virtuale.

Posted in chihuahuaTagged genere, J.K.Rowling, letteratura, Lovecraft, narrazione2 Comments

gli strumenti della casa del padrone

Posted on 2021/01/21 - 2021/03/17 by lazyfox

ho la s/fortuna di essere una delle persone che amministra un gruppo su social innominabile dove si parla di cultura nerd in ottica di sinistra. di recente è esplosa una discussione dovuta alla presenza di una persona all’interno del gruppo che ha avuto comportamenti pesantemente sessisti in passato. senza andare nei dettagli, c’è chi si lamenta del fatto che uno spazio che si dichiara di sinistra accolga gente del genere, chi si lamenta di non sentirsi sicur* in uno spazio con gente del genere, e chi si lamenta che questa persona ha fatto un percorso e non possiamo continuare a considerarlo “gente del genere”.

una discussione su questi temi avrebbe bisogno di portare a una decisione partecipata per poter funzionare, poiché tocca una serie di principi considerati parimenti validi dalla comunità di riferimento e li mette in contrasto, a torto o a ragione. dico “dovrebbe” perché nel caso in questione non è andata così, per svariate ragioni che in buona parte non sono centrali per il ragionamento che voglio sviluppare.

non mi voglio infatti neanche mettere a ragionare di cancel culture, castelli dei vampiri, o altri concetti che ruotano intorno a questi, per quanto siano stati il nucleo centrale delle discussioni che si sono svolte, bensì del fatto che gli spazi virtuali che viviamo non sono strutturati per decisioni collettive.

tre problemi

con “strutturati” intendo dire tre cose. in primo luogo, non sono programmati in questo senso. esistono lu admin, e poi il resto dell’utenza. non ci sono strumenti pratici di distribuzione del potere. non ci sono strumenti per permettere a ogni spazio di decidere a sua volta i propri meccanismi decisionali. ecc ecc.

queste sono scelte architetturali volute, o talvolta sono decisioni implicite, prese in maniera acritica da una storia informatica, nata in un certo contesto, e che nessuna piattaforma ha interesse o si è mossa a cambiare. in questo senso, infatti, neanche la maggioranza delle piattaforme alternative come quelle del fediverso si muovono sulla questione, e in questo come in vari altri aspetti copiano ciò che già esiste. dentro uno spazio possiamo inventarci dei modi per gestire la situazione, ma nel farlo dobbiamo spesso lottare contro lo strumento, invece che usare lo strumento. la questione della “bandierina bianca” di bida è un buon esempio secondo me: è una decisione interna, ma che non ha degli strumenti tecnici che la supportino, né per spingere a usarla, né per rispettarne il funzionamento.

in secondo luogo, e questo aspetto è stato dibattuto spesso, il mezzo di comunicazione virtuale è molto limitato e riduce l’empatia. mancano infatti in esso vari elementi che troppo spesso sottovalutiamo (tono della voce, sguardo, espressione, gestualità, posizione del corpo, anche solo la presenza fisica e visibile), e che diminuiscono drasticamente l’aspetto empatico che può permettere la ricomposizione tra necessità diverse, o addirittura che è essenziale per farlo.

infine, un luogo virtuale ha la caratteristica che può essere partecipato da un grande numero di persone. con più di 800 partecipanti, come nel caso di cui sopra, la struttura fisica più vicina che ci si può immaginare è quella della piazza. ed è impossibile una discussione davvero partecipata in una grande piazza, dove sappiamo che le voci che si sentono sono quelle che urlano, e quelle delle figure con maggiori doti carismatiche, e che non c’è ragione per cui coincidano con quelle che portano a un miglioramento. forse in questo senso si torna nuovamente al discorso del modello che si è programmato, perché indubbiamente ci sono tanti altri modelli di strutturazione del discorso (molti dei quali inesplorati) che vanno in direzioni diverse.

futuri

alla fine della fiera, un punto importante per me è quello di avere delle proposte. dire “così non va” è utile, ma limitato. abbiamo molto bisogno di pars construens, e in ambiti ben più importanti di quelli dei social, si parlerebbe di immaginare il futuro. come mi faceva notare queerwolf, che spesso si trova a dibattere su questioni queer e femministe in ambito di costruzione degli immaginari, non è tanto la critica alle proposte che vengono avanzate a essere problematica (d’altronde molte di queste proposte sono per forza di cose estremamente nuove, e quindi è inevitabile che abbiano dei difetti), quanto piuttosto la mancanza di nuove proposte che vadano a risolvere i problemi che stanno dietro. per prendere un esempio attuale, mi puoi anche scrivere un saggio sui motivi per cui lo schwa non è una buona soluzione per un linguaggio inclusivo, ma se poi tutte le tue energie analitiche le utilizzi per la critica invece che per produrre una soluzione migliore, allora il tuo saggio te lo potevi tutto sommato anche risparmiare.

quindi delle idee le abbozzo qui, anche se so che non ho i mezzi per realizzarle, né ho idea se possano funzionare. ma d’altronde se ci fosse certezza su cosa funziona o meno, non saremmo ancora qui a lamentarci a vicenda, no?

la prima è, appunto, strutturale. la tensione tra la grande piazza, lo stato, la comunità estesa, e le piccole comunità, i gruppi di interesse stretti e locali, c’è da tanto nel ragionamento di sinistra, sia come preferenza per uno degli estremi, sia come tentativo di conciliare questi modelli. a livello social non abbiamo fatto molto. se è vero che i gruppi di discussione possono essere considerati una forma di gerarchia a un livello che permette di ritrovarsi su tematiche condivise, quando un gruppo diventa così enorme ci avviciniamo di nuovo a una dimensione forse troppo ampia. ad esempio un gruppo nerd di sinistra può sembrare un ambito ristretto, in realtà poi al suo interno si può scoprire che le istanze femministe nel mondo nerd sono vissute in maniera diversa dalle persone che lo partecipano, quelle queer anche, ma anche quelle comuniste o anarchiche. sarebbe bello trovare un modo per strutturare le conversazioni in ambienti più piccoli e fluidi che si possano creare, fondere e disperdere nuovamente piuttosto che in grandi piazze rigide. se vogliamo raccontarcela in modo pretenzioso: delle strutture rizomatiche invece che gerarchiche. come? non ne ho davvero idea. costruire la visualizzazione dei topic di discussione intorno a dei tag invece che dei gruppi? la possibilità di creare sottogruppi e gruppi paralleli di conversazione in libertà mantenendo una connessione? altro? in questo senso esperimenti come scuttlebutt sono interessanti nella loro totale fluidità (che però al momento non offre neanche nulla che permetta poi effettivamente di organizzare, esplorare e modellare lo spazio informativo).

poi c’è il discorso degli strumenti di amministrazione. la struttura che al momento definisce la stragrande maggioranza degli spazi è sostanzialmente a due livelli: chi amministra, e chi fruisce. sarebbe davvero interessante se ogni gruppo di persone potesse decidere da sé e collettivamente, nel momento in cui decide di creare uno spazio, quali regole impostare in quello spazio. cosa è presente nello spazio, e cosa no. quali sono le regole di approvazione dei contenuti, quali flussi si possono seguire, in che condizioni i contenuti rimangono o vadano eliminati, e via dicendo. in questo vedo in particolare due evoluzioni interessanti:

  • la meta-amministrazione: tra le regole di amministrazione ci sono anche dei meccanismi che definiscono come si possono cambiare o meno le regole di amministrazione, per permettere così una evoluzione degli spazi a seconda di chi li vive
  • libera scrittura di regole: una regola non è altro che del codice; al momento mi sto interessando a una serie di idee e tecnologie (come le object capabilities o le secure extension di javascript) che tra le possibilità hanno proprio quella di fornire definizioni di comportamento con una granularità completamente personalizzabile e in piena sicurezza.

nel complesso, l’idea è che la possibilità di scrivere da sé le regole, condividerle, e decidere quali e come implementare permetterebbe una gestione anarchica degli spazi virtuali.
rischia di diventare incredibilmente irreggimentato? assolutamente. rischia di diventare un server anarchico di minecraft (dove vale la definizione negativa e sbagliata di anarchia)? pure. oppure no. boh.

infine, trovare dei meccanismi anonimi di espressione emotiva associata a una conversazione. il cuoricino e i like e tutto il resto di social innominabile sono modi di esprimere approvazione e supporto alla persona o al testo, e così riceverli in maniera nominale fornisce un input spesso importante per la persona, secondo quei meccanismi malati di induzione dopaminica che tanti social sfruttano. ma se non ci concentrassimo sui singoli, e ci chiedessimo cosa ti ha lasciato una conversazione nel complesso dopo averla letta? se arrivassi su una discussione dove il mood principale è di incazzo, mi verrebbe ancora da fornire la definizione esatta di “rizomatico” perché secondo me è stato travisato il contenuto di questa intervista di deleuze, oppure in quello specifico caso passerei oltre e cercherei di cogliere il problema espresso invece che la sua forma? se vedessi che il mood principale è triste o scoraggiato, mi metterei a cacciare insulti tra le righe a chi ci partecipa invece di cercare delle soluzioni costruttive? chissà, forse sì. l’empatia umana è una roba strana. però sicuramente l’abilità di “read the room” è molto limitata con gli strumenti attuali.

per chiudere

sicuramente mancano tanti elementi da questo mio ragionamento. ci sono tante cose che non ho letto, e tanti aspetti che non conosco: per dire, ci sono molti testi del gruppo ippolita che devo davvero leggere, perché hanno fatto un sacco di ricerca sul tema. prendiamola così: come una testimonianza di un’esperienza vissuta e una serie di ragionamenti che ne sono scaturiti, e che possono andare ad aggiungersi, complementarsi o essere smentiti da tanti altri che si trovano in giro.

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