sono giorni che desidero parlare dei limiti delle misure di contenimento prese dal Governo. critica non in merito alla potenziale o meno efficacia, quanto su tutto quello che non tiene in considerazione, all’immaginario (perché alla fine CCCP parla di quello) che si porta dietro.
però ho paura di farlo, perché in questi giorni non c’è modo di muovere un’obbiezione senza rischiare l’insulto. qualcosa di timido su Facebook l’ho pure fatto, ma è stato un macello.
col cervello in questi giorni masticato dall’ansia, ci ho messo un po’ a rendermi conto che le due cose sono correlate: i limiti, e chi ora attacca chiunque non segua in modo ligio le regole imposte (come giustamente ricorda Luca Casarotti su Jacobin, imposte più con il linguaggio della paura che con quello legale).
il governo ha deciso di congelare il paese in un momento X: prima ci si poteva muovere, da quell’istante non più.
questo perché buona parte dell’esecutivo è composto da persone benestanti, bianche, etero, cis e neurotipiche. persone che, se vivono una qualche forma di limite, possono aggirarlo o aggiustarlo coi soldi, o usare il loro potere per superarlo o almeno sopravviverne. persone per cui ogni momento della giornata, dell’anno è in una zona di comfort. un po’ come chi sta puntando il dito contro ogni comportamento in deroga al decreto o contro le critiche.
persone che hanno dei risparmi, o contratti sicuri, o casa di proprietà (o casa e basta). che non hanno problemi di salute. che vivono da sole, e ci stanno bene. o che vivono con persone con cui hanno per lo meno rapporti civili. persone la cui idea di “bene comune” coincide con il proprio, di bene. che risolvono il problema dei negozi chiusi ordinando su Amazon o facendosi spedire il pranzo da Deliveroo, senza rendersi conto del privilegio che permette loro di essere a casa e non rischiare, scaricando quel rischio addosso agli altru lavoratoru che portano merci, che consegnano il cibo senza contratti né sicurezze.
sono dell’idea che sempre e ancora più nei momenti di crisi sia un dovere rendersi conto dei limiti della narrazione ufficiale, e creare nuovi immaginari che possano far star bene tuttu. ritornare a pensare come comunità, e non come piccoli elementi isolati.
in questi giorni ho letto di un sacco di persone che hanno pagato questo immaginario stretto, piccolo, borghese, e tuttu quel qualcuno che potevano essere noi, potevano essere me.
posso essere io quellu coi genitori che si fanno il mazzo a Crotone per permettermi di studiare a Milano, genitori che tempo zero si sono ritrovati senza lavoro. r allora sarei statu tra quelle persone scese in fretta e furia dal nord verso il sud, perché l’alternativa sarebbe stata di rimanere senza né casa né cibo. ma tu mi avresti voluto bloccatu lì.posso essere io ad avere un coniuge violento da cui ora non posso scappare, menatu a sangue ancora e più di prima, che le sue tensioni ora non le può manco scaricare al bar. e tu mi avresti denunciatu per due passi senza meta fuori casa.
posso essere io quellu denunciatu perché senza fissa dimora, perché nessuno ha pensato che non è che tutti abbiamo una casa. e la chiamata avresti potuto farla tu.
posso essere io quellu con disturbo depressivo bloccatu in casa con una famiglia che pensa che su, dai, sei solo senza voglia di fare, muovi il culo. e tu davanti ai miei sfoghi disperati avresti scritto “Siamo tutti nella stessa barca, smettila!”.
posso essere io quellu con il disturbo d’ansia e che ora non posso vedere le persone che mi fanno del bene e che no, cazzo, non è uno sfizio, perché rimanere in casa è una tortura, i pensieri si accavallano e alterano il reale e tutto ciò che è più doloroso diventa vero, anche se non è mai accaduto. e tu quando leggerai della mia multa perché scappatu da casa in preda ad un attacco di panico dirai “Che egoista coglione di merda”.
posso essere io quellu chiuso in prigione senza sapere come stanno i miei parenti, ammassatu con altri corpi, con le guardie coi nervi a fior di pelle che continuano a dire che Tiziu sotto di me ha solo un po’ di influenza, è solo influenza. e tu dirai “Se eri in prigione c’è un motivo, ben ti sta”.
posso essere io quellu che va a lavoro senza contratto, o con la febbre, perché non posso pagarmi l’affitto e il cibo sennò, e mi spiace, ma mi è stata data la scelta se ammalarmi o morire di fame. e mentre tu ritirerai il tuo panino che ti ho consegnato, mi darai 20 centesimi di mancia sentendoti lu miglioru.
se Conte avesse detto “Solo il padre di famiglia può andare a lavoro”, avresti (spero) protestato. eppure questa frase non troppi decenni fa sarebbe stata lecita. ora non lo è perché in parte (mai abbastanza) la narrazione del ruolo della donna è cambiata.
e per questo è necessario mettere in discussione gli immaginari attuali e proporne di nuovi, approfittare della crisi per evidenziare ciò che non va, e fare in modo che domani le cose siano migliore per tuttu, non solo per chi è come te.
per farlo, serve empatia.
continuo ad essere ottimista. sono sicuro che sia la paura a farti fare certe cose, la paura di non sapere cosa ci sarà domani, paura che è anche mia. e per questo credo che anche tu voglia cambiare la tua, di narrazione, e uscire da Homo homini lupus, da questo romanzo collettivo che è solo uno dei tanti, non l’unica soluzione.
scriviamo assieme qualcosa di migliore.