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creepy cute commie pack

  • what the pack?!?

Tag: letteratura

il corpo dell’altra, o il problema di “Ohio” di Stephen Markley

Posted on 2021/03/29 by queerwolf

per la nostra rubrica interiora, oggi squartiamo uno dei romanzi più letti dello scorso anno.

Ohio è il romanzo di debutto di Stephen Markley, che gli ha garantito un paragone diretto con Jonathan Franzen. dato che il pack non si occupa di recensioni ma di rappresentazione, vi linkiamo qui un’analisi di Luca Briasco su il manifesto.
e visto che è facile brontolare, ma è importante anche proporre delle soluzioni, divideremo il post tra ringhiatine e possibilità. e, cosa importante: l’articolo è privo di spoiler*.

 

grassa, vecchia e brutta
una breverrima premessa. Ohio è un romanzo diviso in quattro parti più una. ogni parte è narrata dalla prospettiva di unә dellә protagonistә. quando ho incontrato il primo personaggio (Bill Ashcraft) ho concesso all’autore il beneficio del dubbio: protagonistә diversә dovrebbero portare prospettive diverse, e speravo che la parte problematica fosse specifica del personaggio.
invece è un tema che lә accomuna tuttә: il modo in cui guardano il corpo delle donne è tremendo.
non è l’unica cosa spiacevole del romanzo: abbiamo pelli caffelatte o caffè e panna; un certo classismo (i personaggi maschili esplicitamente brutti o gretti sono anche poveri) che cozza coi sermoni che piacciono all’autore; il paragonare il dolore e la difficoltà per l’accettazione della propria omosessualità e l’accettazione da parte di un genitore. il caricare su una minoranza il dovere di farsi accogliere dalle altre persone. una delle protagoniste, Stacey Moore, è al limite del tokenism lesbico.
lo sguardo verso le donne però, soprattutto se non protagoniste, è trasversalmente funzionale, finalizzato a valutarle come oggetti esistenti solo per la propria soddisfazione erotica o non degne d’esistere.
due personaggә molto diversә come Bill Ashcraft (attivista di sinistra disilluso con problemi di droga) e Stacey Moore (scrittrice lesbica ambientalista proveniente da una famiglia religiosa) hanno la stessa prospettiva. quando parlano di una donna, per prima cosa dissezionano il suo corpo. la sua esistenza è degna solo se è bella (o figa o “fighetta affascinante” [pg.141]), o “bella nonostante”, dove di solito è “nonostante il peso” (es: pg.206 “Un po’ sovrappeso ma sempre bella”) o “nonostante l’età” (es: pg. 213: “Hilde aveva sui quarantacinque anni, e le borse sotto gli occhi a conferma della sua età, ma era ancora uno schianto”). la bellezza di solito è data dalle tette, possibilmente grosse (es: pg. 249), dai fianchi o dal culo, ma principalmente “bella” è sufficiente a riassumere tutto ciò che conta in una donna. se il numero di aggettivi per descrivere l’aspetto è misero, si riducono a tre quando si parla di personalità. tutto si può riassumere, almeno per le donne non protagoniste, con intelligente, affascinante e un isterica che viene lasciato sempre tra le righe (es: pg.123/124).
il tempo ha sempre un effetto fisico sul corpo delle donne: “appesantita” deve essere la parola preferita di Markley (es: pg.186, pg.200). una donna invecchia e quindi diventa brutta e diventa brutta principalmente perché ingrassata. è così ovvio che se lo sguardo è pieno di affetto, allora bisogna rimarcare l’assoluzione della vittima (“tutta la ciccia […] non la rendeva meno bella ma più umana”). sono considerazioni che non vediamo praticamente mai sul corpo degli uomini, e che al massimo sono portate con indulgenza. l’unica eccezione è quando l’uomo deve essere uno dei “cattivi”. a questo punto “era piuttosto brutto […],pieno di brufoli, sovrappeso, sudava come un animale ed era povero” (pg.220). perché ovviamente povertà e peso sono di nuovo delle colpe. o il big cattivo della storia ha “naso largo, le labbra grosse, burrose [nb: ti ricordi come Lovecraft descriveva Wilbur?]. In quel momento erano [tratti] sodi e fanciulleschi ma in pochi anni sarebbero diventati mongoloidi” (pg.136) (subito dopo uno dei buoni invece “aveva un’aria brutale da eroe”).

Markley è stato criticato ampiamente per i pipponi morali alla Franzen che distribuisce lungo il testo. se ci fosse stato un intento di critica contro misoginia o body shaming, a un certo punto avremmo trovato dieci pagine di sermone. invece né lui né ә editor né tutte le persone che hanno collaborato al testo si sono poste il problema. bene.

 

non si può più dire niente
credo non servano altre spiegazioni per giustificare la rabbia provata leggendo Ohio. è considerato uno dei romanzi migliori dell’anno passato, e Markley è figlio di quell’industria della letteratura che sono le accademie di scrittura americane (bestemmie sottaciute).
credo sia però importante mostrare che ci possono essere altri modi di narrare. nelle conversazioni attorno al tema della rappresentazione arriva sempre la finta domanda: “come faccio se voglio creare unә personaggiә che è misogino, razzista etc? così non si può più dire niente”.
quando scriviamo, due voci scorrono nella stessa penna/tastiera. una è quella che accompagna la prospettiva dellә personaggiә, l’altra è la voce dell’autricә. a seconda del nostro stile la seconda può essere o meno trasparente, ma se sappiamo tenere conto della divisione tra le due, si può fare davvero molto.
prendiamo per esempio Bill Ashcraft. una delle cose che ci viene detta (non da Bill ma solo successivamente da Stacey) è che Bill è scuro di pelle**. ora, mettiamo il caso che tu sei Markley e il tuo intento è mostrare un Ashcraft misogino. non servono grandi cambiamenti nel testo, ma giusto una buona consapevolezza del materiale con cui stai lavorando. basta letteralmente una frase.
le persone scure di pelle (non so se sia la descrizione originale nel testo o un problema di traduzione, e lascia aperte molte possibilità) conoscono l’oggettificazione sessuale del proprio corpo. basta una ricerca su Pornhub per vedere i loro corpi trasformati in categorie: nerә, latinә, indianә etc etc. tu che sei Markley, e sai questa cosa, dopo l’ennesima lista di culi e tette e fighe di Ashcraft puoi farlo lamentare “perché è stanco di quelle tipe che lo raccattano al bar dicendogli “Voi neri/latini/indiani siete così focosi!” (frase di merda, lo so). Ashcraft sente il peso di diventare un oggetto sessuale e non una persona ma non si rende nemmeno conto di fare la stessa cosa con ogni donna, e la tua voce autoriale ci ha fatto capire che sei criticә, che non ti riconosci nella prospettiva misogina di Ashcraft.
un periodo, un solo periodo in 130 pagine dedicate a lui, non un grande stravolgimento.
può esserci l’amica che gli dice “ti definisci progressista ma poi ci tratti tutte come tette con le gambe”. può esserci un momento di realizzazione ricacciato subito nei recessi della mente. una frase di sottofondo in televisione. un adesivo sulla macchina di un’attivistә. un vecchio ricordo. il verso di una canzone. può esserci lo stesso biasimo che viene scaricato su una donna che è ingrassata, invecchiata, o sul tizio che è cattivo e quindi coi brufoli e la ciccia.
quando rompo le scatole dicendo che ogni narrazione è responsabile della costruzione degli immaginari collettivi e blah blah blah intendo anche questo: credo sia fondamentale mostrare personaggә con prospettive problematiche, ma è altrettanto centrale fare capire che lә stiamo problematizzando. non è vero che non si può dire niente: si può dire tutto, ma il dovere di chi scrive è sapere come rendere problematico ciò che è problematico. altrimenti l’unica cosa che stiamo chiedendo è di non avere responsabilità.

 

* anche per questo non viene toccato il finale, che però raggiunge livelli di problematicità epocali. il pack si riserverà di fare un intervento ad hoc in futuro.
** spoilerozzo. qui offro all’autore il beneficio del dubbio, non avendo recuperato l’effettivo passaggio in inglese e non sapendo quindi se sia un problema di traduzione. ma scopriamo il colore della pelle di Ashcraft diverse pagine dopo una fuga dalla polizia e mai, mai vediamo la prospettiva di una persona di pelle scura che fugge dalla polizia americana che è famosa per tante cose, ma di certo non per la gentilezza con cui tratta le persone BIPOC (neri, indigeni e persone di colore). Ashcraft fugge quasi con leggerezza, con le stesse reazioni e preoccupazioni dello spacciatore bianco con cui sta scappando.

Posted in interioraTagged cattiva scrittura, corpi, letteratura, narrazione

autricә imbarazzanti e cosa farne: parte uno, quella seria

Posted on 2021/03/07 - 2021/03/17 by queerwolf

Sulla Creazione dei Ne*ri

Quando, tempo addietro, gli dèi crearono la Terra

Sulla bella immagine di Giove l’Uomo venne plasmato alla nascita.

Le bestie minori vennero poi ideate;

Ma erano troppo distanti dall’umanità.

Per riempire il vuoto e collegare il resto all’Uomo,

Gli ospiti dell’Olimpo han congegnato un piano intelligente.

Una bestia hanno forgiato, di foggia semiumana,

Colmandola di vizi, e chiamando questa cosa un Ne*ro.

 

se in un gruppo di appassionatә del weird definisci H.P.Lovecraft razzista o misogino, arriva subito la polizia MBEB ad arrestarti: reato di incapacità di contestualizzazione, di “non capisci che era normale all’epoca?!?” e via di seguito. a volte arriva qualcuno che ti dice: “eh, ma la poesia (quella qui sopra) è del 1912! poi è cresciuto”. dimenticando che, e.g, per farci capire che il Wilbur Whateley de L’orrore di Dunwich (1928) era bruttissimo, Lovecraft ci dice che aveva delle bestiali grosse labbra e i capelli crespi e arruffati. il razzismo pervade la narrazione lovecraftiana, così come le posizioni transfobiche di Rowling emergono nel romanzo più recente. il pack si prenderà un paio di post per ragionare su cosa questo significhi, su come possiamo agire. e sul perché sia urgente fare qualcosa.

 

l’MBEB police obietta

facciamo le cose a ritroso, partendo dall’obiezione più frequente quando l’argomento viene messo sul tavolo. c’è chi parlerà di censura, chi di cancel culture. chi griderà dicendo che oramai non si può più dire niente, e chi che basta separare l’opera dall’autore.

l’ultimo è un mantra comune quando il discorso cade in ambiti “dotti”.

questa posizione si appoggia sulle idee di Roland Dexter Barthes. Roland Barthes è stato un critico letterario e semiologo francese di orientamento strutturalista (lettura di Wikipedia: achievement unlocked).

stanco di vedere una critica letteraria che analizzava le opere attraverso il contesto e la vita dell’autricә, Roland un giorno lancia il tavolo per aria e dichiara: una volta stampata, l’opera è dellә lettricә. un’opera esiste a prescindere dallә suә autricә, e tutto quello che verrà affermato in seguito da lәi varrà zero. “l’autricә è morta” sogghigna Roland, ululando alla luna.

quindi Barthes ci dice: davanti ad un’autricә imbarazzante si prende l’opera, si ignora ciò che non è nel testo, amichә come prima. il pack è un po’ meno convinto, e quindi eccoci prontә a borbottare contro l’amico francese. per farlo seguiremo le riflessioni di Lindsay Ellis.

per Lindsay, ciò che dice Roland funziona in una campana di vetro: ricevo un testo nudo, privo di copertina, sinossi, pubblicità. non ho idea di chi sia l’autricә, delle opinioni del resto del mondo su questo romanzo. allora forse saprò non metterci altri pregiudizi, solo la mia fantasia.

 

il quotidiano in cui viviamo però è ben diverso.

l’autricә è vivә e molto attivә: su Facebook ci racconta cosa mangia, su Youtube cosa legge, e usa Twitter per parlare di politica.

l’autricә va in televisione e ai festival, presenzierà alla prima del suo film, racconterà i nuovi elementi del videogioco o della serie televisiva a cui ha collaborato.

il paratesto è pervasivo, e influenza il modo in cui ci approcciamo al testo. moltә autricә creano un vero e proprio personal branding, e questo fa sì che quando ci approcciamo a un testo di Baricco, e.g., troveremo roba spocchiosa e fastidiosa troveremo cose fortemente sovrapponibili al modo in cui fa critica, alle cose che scrive sui giornali, che dice durante i festival.

questo accade persino quando non sappiamo nulla dell’autricә: quante persone hanno costruito tesi complessissime sull’identità di Elena Ferrante, cercando di dedurla da uno specifico riferimento geografico o linguistico nei suoi romanzi?

da quando è uscito l’ultimo romanzo di T.E.Rfowling, le recensioni sembrano lanciate principalmente nel comprendere se il serial killer sia o meno una riconferma delle recenti posizioni dell’autrice (spoiler: sì, linko due video in merito).

autricә e testo si influenzano a vicenda, amplificando i rispettivi valori. Roland Dexter Barthes pulisce un coltello con cui ha solo ferito l’autricә, ma questә è vivә e felice.

 

bias

non c’è solo il problema del paratesto.

 

una lettura capace di dividere opera e autricә richiede unә lettricә capace di riconoscere e affrontare non solo i bias dellә scrittricә ma anche i propri. ed è un lavoro complesso, estenuante, che crea un disagio spesso difficile da gestire.

 

tuttә noi cresciamo in una cultura fortemente misogina, razzista, aggressiva verso le diversità. questi messaggi vengono reiterati ogni giorno attraverso la politica, i mezzi di informazione, di intrattenimento, le opere artistiche. le battute abiliste e omofobe sono così normali che se qualcunә ci fa notare che ne abbiamo detta una, ci mettiamo sulla difensiva.

questo mettersi sulla difesa è comprensibile, perché chi ci fa notare i nostri bias prima o poi solleciterà il senso di colpa: per permetterci di sentirci delle “brave persone”, le maglie sociali si sono fatte così larghe che ci aspettiamo di poterci ritenere, e.g. , non razzistә solo perché non usiamo la parola con la n, ma poi ci offendiamo quando la nostra vicina afrodiscendente ci dice infastidita che “No, i miei non sono africani ma etiopi, e io sono di Casalpusterlengo, smettila di chiedermi da dove vengo”.

le persone principali che possono mettere a nudo i nostri bias sono quelle che fanno parte di quella minoranza marginalizzata. ma quando queste persone mettono l’accento sull’elemento problematico, spesso vengono attaccate e definite immature, con un eccesso di attenzione per le proprie emozioni. oppure prive di basi teoriche. responsabili di distrarci dalle lotteveramenteimportanti™.

perché voler decostruire un sistema che ti uccide solo perché sei fr0cia, effettivamente, non è una lotta importante.*

 

e quindi, al di là della rabbia personale: non mettiamo in discussione che tu, amicә, sappia e voglia leggere l’opera in modo davvero neutrale. e che davanti al disagio che provi quando qualcunә ti farà notare un tuo pregiudizio mentale abbraccerai quel disagio, lo decostruirai, lo supererai. ma la maggior parte delle volte, quando ci ritroviamo davanti alla frase “separiamo l’opera dall’autore”, l’impressione è che sia solo un modo intellettuale per dire “il mio godimento dell’opera viene prima della vostra sicurezza”.

 

“basta moralizzatricә!”

collateralmente un’altra obiezione al discorso è legata al terrore che l’arte venga “moralizzata”, spesso evocando anche quel fenomeno che viene chiamato cancel culture.

brevemente, si intende con Cultura della cancellazione la rimozione dalla vita pubblica di persone o aziende che agiscono contro i gruppi marginalizzati. nella mente di chi è terrorizzata dalla Cancel Culture, i gruppi marginalizzati sono entità potenti (es: la famigerata Lobby Gay, le nazifemministe) che con un po’ di casino su Twitter possono far diventare Allen o Polanski indigenti. nei fatti, non sembra essere questa minaccia così concreta. ad esempio, l’Autrice Imbarazzante per eccellenza di quest’ultimo anno e rotti, J.K. Rowling, macina ancora soldi senza problemi, ha film in produzione, un altro videogioco, e sembra stia per lavorare su una serie televisiva legata ad Harry Potter.

di contro, come ha detto dichiarato in un tweet la politica Alexadria Ocasio-Cortez, non ci lamentiamo delle voci che sono da sempre cancellate: quelle di chi fa un certo tipo di politica, così come quelle delle minoranze (spoiler: provate a cercare quanti romanzi di autrici trans esistono in italiano).

 

in merito alla “moralizzazione” dell’arte invece, pensiamo sfugga un punto fondamentale: ogni opera d’arte è già di per sé portatrice di una morale, perché fa riferimento ad un insieme di norme e valori, e li considera come dati di fatto.

 

nelle narrazioni andiamo a definire sempre ciò che si oppone alla norma e mai la norma stessa, ritenendo la norma portatrice di una morale in modo implicito (mentre per l’eccezione, la prospettiva va sempre bene o male specificata): non dico che Anna e Marco vivono una relazione monogama, ma specifico che Anna, Marco e Mattia sono in una troppia. non dico che Anna è una buona madre perché si lascia morire di fame pur di salvare i suoi figli, ma giudico Lucrezia che ha preferito dare in affido il figlio che non fare una vita di merda. gli scienziati di Lovecraft sono sempre nel giusto, perché la scienza è nell’immaginario lovecraftiano intrinsecamente morale (tranne se sei Herbert West, ma allora lì viene specificato). Hermione lotta per la liberazione degli elfi, ma non per quella di Molly Weasley, perché nel mondo di Rowling (come nel nostro) è ovvio che una madre sia una schiava, e la magia serve non per liberarla da questo giogo, ma per ottimizzare il suo lavoro.

 

quando i gruppi marginalizzati mettono l’accento su determinate cose, non chiedono una moralizzazione: chiedono un cambio di prospettiva sulla morale già esistente in quell’opera e, quindi, del mondo che ci circonda.

politica e morale sono qui sovrapponibili per gli atteggiamenti presenti nel discorso comune: pensiamo alle frotte di giocatori che dicono “basta politica nei videogiochi!” quando vengono introdotti personaggi queer o razzializzati, senza rendersi conto che anche l’assenza di questi personaggi è già una scelta politica. allo stesso modo, una storia che descrive il cattivo come “con la bocca larga e i capelli ricci e crespi” è una storia moralizzata, e se chiedi di togliere la moralizzazione dall’arte, vuol solo dire che non stai vedendo quella già presente, e le conseguenze sulla vita delle altre persone.

 

ed è questa la risposta alla domanda “Perché bisogna fare qualcosa per le autrici imbarazzanti?”: perché condizionano in negativo le nostre vite, perché collaborano a mantenere narrazioni tossiche sulle comunità marginalizzate. perché collaborano all’oppressione.

perché le conseguenze sulla realtà ci sono. è una cosa che abbiamo già evidenziato altrove: le narrazioni creano il reale, e per questo ne siamo responsabili.

scrivere vuol dire agire.

torniamo a Rowling: un senatore repubblicano ha usato le sue parole per richiedere di non estendere alle persone LGBTQIA* la legge statunitense contro le discriminazioni. le parole di Rowling e la sua posizione di prestigio sono servite per appoggiare un’azione politica transfobica.

 

quando si propongono azioni (come quelle del prossimo post) in risposta a determinate posizioni, e quelle azioni vengono criticate per il semplice fatto che esistano, si sta sostanzialmente chiedendo a chi è vittima di certe narrazioni di cancellarsi.

in un assurdo gioco dei ribaltamenti, chi chiede di non moralizzare le arti chiede che la parte offesa venga silenziata, cancellata, e preserva per chi ha già potere il diritto di dire quello che vuole, senza conseguenze.

noi crediamo sia invece giusto smetterla di mettere una sola prospettiva al centro dell’universo, e imparare a ritenere valide e importanti le esperienze di chi vive in vari modi ai margini della norma, restando in ascolto.

e riteniamo sia giusto proporre una cultura della conseguenza, una cultura in cui le azioni aggressive contro chi è più esposto abbiano dei risultati.

il prossimo post parlerà (in modo più caciarone) di come creare queste conseguenze.

 

il pack vi abbraccia.

 

* tra l’altro, così si chiede a chi fa parte di una comunità marginalizzata di trovare energie per creare il proprio benessere (che il mondo fuori ostacola in tutti i modi),  per chiedere al mondo di riconoscere la sua esistenza, e  per portare avanti un confronto con persone a cui spesso non importa un granché della faccenda, che si sono già attestate su posizioni comode perché per loro, alla fin fine tutto questo non rimane che un gioco intellettuale che non comporta alcun rischio. e se, sotto tutta questa pressione, la persona in questione sbarella un attimo, finisce subito in un rogo virtuale.

Posted in chihuahuaTagged genere, J.K.Rowling, letteratura, Lovecraft, narrazione2 Comments

didascalico

Posted on 2020/12/28 - 2021/03/17 by queerwolf

quando mi è stato fatto notare qualche mese fa, mi sono innervosito. ho cercato subito un modo per riportare la discussione a vantaggio della mia posizione, senza rendermi conto di star perdendo un’occasione importante. perché chi era dall’altra parte aveva ragione: fare narrativa raccontando le vite delle minoranze porta spesso alla costruzione di storie con scene e dialoghi didascalici, sacrificando il “bello” a favore dell’utile.

la cosa che non avevo capito durante quella conversazione è che questo non è né una colpa, né un problema. ci sono ovviamente le grandiose eccezioni, ma non tuttu noi che scriviamo siamo Virginia Woolf, e spesso arrossiamo anche solo se ci paragonano a Gramellini (dovessi farlo, uccidetemi).

per parlare di razzismo senza essere didascalica, sua venerabilità N.K. Jemisin ha dovuto scrivere una storia in tre volumi. Nnedi Okorafor invece implicitamente ti dice: se non comprendi i riferimenti alla cultura nigeriana, sono cavoli tuoi. tieniti accanto un motore di ricerca e studia, che se hai imparato tutte le formazioni del Milan degli ultimi 40 anni puoi pure ricordarti che cos’è un dashiki.

quindi.

le narrazioni didascaliche non sono una colpa

e il perché è banale: per un vantaggio di tempo e influenza dei/nei media, ciò che ha rimandi alla cultura egemone non avrà mai bisogno di essere spiegato. se racconto la vita di Giulio e Agata e del figlio adolescente Matteo e sono tuttu e tre cisetero della periferia di Latina, non mi servono contestualizzazioni, spiegazioni, approfondimenti per far capire a chi legge perché Matteo voglia scappare a Bologna. e se scelgo di farlo, ho dalla mia qualche secolo di metafore, rimandi, giochi di parole.

se invece voglio parlare dell’esperienza non binaria di K, sono obbligato o a piazzare un’etichetta (es: “Ciao lettriciu, sorpresa: ti presento K, persona non binaria”) o a snocciolare qua e là esempi, dettagli, frasi, dialoghi nella speranza che la cosa sia chiara a chi legge. una di quelle cose che il critico MBEB di turno lamenterebbe come “Questo testo è pesante e pieno di riferimenti non necessari” (sul fatto che la critica sia costruita da un pubblico preciso per un pubblico preciso, è un altro problema che si affronterà probabilmente più avanti).

negli ultimi anni sono molti i gruppi marginalizzati che stanno cercando di prendere un controllo sulla propria rappresentazione. spesso questa fino a poco fa era assente, superficiale, pregiudizievole. siamo appena nati, ed è necessario del tempo per inventarci un nuovo lessico, nuove prospettive, per far sì che la nostra lingua possa rappresentarle a dovere. e mentre si procede per tentativi, la soluzione più immediata per arrivare in modo chiaro a chi leggere, è l’essere didascalicu.

le narrazioni didascaliche non sono un problema

primo: cito di nuovo la divina N.K. Jemisin che in un’intervista in soldoni diceva: se usiamo linguaggi metaforici continuerete a dire di non aver capito che quel racconto parlava di razzismo/bifobia/sessimo etc. se ve lo mettiamo davanti in modo esplicito potete pure continuare a girarvi dall’altra parte, ma almeno saprete di essere degli stronzi.

ma, soprattutto: per chi sono queste storie?

qualche giorno fa mi sono sgridato da solo. ero circa a due terzi di Felix ever after di Kacen Callender (un romanzo che parla di un ragazzo AFAB che subisce un outing a scuola, e del suo desiderio di essere amato), e continuavo a borbottare quando mi trovavo davanti a dialoghi che avevano una sola funzione: smontare topos transfobici, come la Tizia che dice “Sono femminista, e quindi se sei un ragazzo AFAB per me sei una traditrice delle donne”. continuavo a pensare: ecco, questi sono i libri che danno ragione al ragazzo con cui ho discusso mesi fa. e poi ad un certo punto mi sono accorto di star ragionando come il classico MBEB, convinto che tutte le narrazioni debbano essere rivolte a me, che sia il lettore modello di ogni fottutu autriciu di questo pianeta.

Felix ever after non è per me: certo, lo posso leggere (e l’ho fatto con piacere), ma il libro di Callender è per chi adolescente si riconosce come AFAB/AMAB e ha paura, prova confusione, non comprende perché si senta quasi a suo agio nella definizione di persona trans, ma non fino in fondo.

quando un testo ha questo obiettivo, quando vuole dire “Esistiamo e meritiamo una vita piena e valida come quella di tuttu”, non può che essere didascalico. certo, ci sono scene che possiamo narrare in modo più esteticamente appagante (non a caso, quelle che si appoggiano alle prospettive della cultura egemone, come un padre che abbraccia un figlio dopo anni di rifiuti), ma la chiarezza diventa più importante dell’estetica. quando non sei abituatu a vederti rappresentatu, è istintivo cercarti nelle storie che incontri, sperare che il fatto che Pinco Pallo sia un uomo di trent’anni single in quel romanzo sia il segno che no dai, non è single, ha un compagno ma l’autore non è stato così coraggioso da dirlo. e leggere in modo chiaro ed esplicito “E poi Pinco Pallo si disse “Basta!”: fece le valigie e si trasferì da Amanda, Stefano e Pietro, i suoi grandi amori” è una cosa che chi non fa parte di una minoranza non potrà capire. non è una colpa, ambiamo alla vostra stessa fortuna. ma nel mentre avremo bisogno di scrivere cose che voi riterrete “brutte”, e ce ne faremo una ragione: quei libri non sono per voi.

Posted in colpi di codaTagged Kacen Callender, letteratura, MBEB, N.K. Jemisin, Nnedi Okorafor

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