quando mi è stato fatto notare qualche mese fa, mi sono innervosito. ho cercato subito un modo per riportare la discussione a vantaggio della mia posizione, senza rendermi conto di star perdendo un’occasione importante. perché chi era dall’altra parte aveva ragione: fare narrativa raccontando le vite delle minoranze porta spesso alla costruzione di storie con scene e dialoghi didascalici, sacrificando il “bello” a favore dell’utile.
la cosa che non avevo capito durante quella conversazione è che questo non è né una colpa, né un problema. ci sono ovviamente le grandiose eccezioni, ma non tuttu noi che scriviamo siamo Virginia Woolf, e spesso arrossiamo anche solo se ci paragonano a Gramellini (dovessi farlo, uccidetemi).
per parlare di razzismo senza essere didascalica, sua venerabilità N.K. Jemisin ha dovuto scrivere una storia in tre volumi. Nnedi Okorafor invece implicitamente ti dice: se non comprendi i riferimenti alla cultura nigeriana, sono cavoli tuoi. tieniti accanto un motore di ricerca e studia, che se hai imparato tutte le formazioni del Milan degli ultimi 40 anni puoi pure ricordarti che cos’è un dashiki.
quindi.
le narrazioni didascaliche non sono una colpa
e il perché è banale: per un vantaggio di tempo e influenza dei/nei media, ciò che ha rimandi alla cultura egemone non avrà mai bisogno di essere spiegato. se racconto la vita di Giulio e Agata e del figlio adolescente Matteo e sono tuttu e tre cisetero della periferia di Latina, non mi servono contestualizzazioni, spiegazioni, approfondimenti per far capire a chi legge perché Matteo voglia scappare a Bologna. e se scelgo di farlo, ho dalla mia qualche secolo di metafore, rimandi, giochi di parole.
se invece voglio parlare dell’esperienza non binaria di K, sono obbligato o a piazzare un’etichetta (es: “Ciao lettriciu, sorpresa: ti presento K, persona non binaria”) o a snocciolare qua e là esempi, dettagli, frasi, dialoghi nella speranza che la cosa sia chiara a chi legge. una di quelle cose che il critico MBEB di turno lamenterebbe come “Questo testo è pesante e pieno di riferimenti non necessari” (sul fatto che la critica sia costruita da un pubblico preciso per un pubblico preciso, è un altro problema che si affronterà probabilmente più avanti).
negli ultimi anni sono molti i gruppi marginalizzati che stanno cercando di prendere un controllo sulla propria rappresentazione. spesso questa fino a poco fa era assente, superficiale, pregiudizievole. siamo appena nati, ed è necessario del tempo per inventarci un nuovo lessico, nuove prospettive, per far sì che la nostra lingua possa rappresentarle a dovere. e mentre si procede per tentativi, la soluzione più immediata per arrivare in modo chiaro a chi leggere, è l’essere didascalicu.
le narrazioni didascaliche non sono un problema
primo: cito di nuovo la divina N.K. Jemisin che in un’intervista in soldoni diceva: se usiamo linguaggi metaforici continuerete a dire di non aver capito che quel racconto parlava di razzismo/bifobia/sessimo etc. se ve lo mettiamo davanti in modo esplicito potete pure continuare a girarvi dall’altra parte, ma almeno saprete di essere degli stronzi.
ma, soprattutto: per chi sono queste storie?
qualche giorno fa mi sono sgridato da solo. ero circa a due terzi di Felix ever after di Kacen Callender (un romanzo che parla di un ragazzo AFAB che subisce un outing a scuola, e del suo desiderio di essere amato), e continuavo a borbottare quando mi trovavo davanti a dialoghi che avevano una sola funzione: smontare topos transfobici, come la Tizia che dice “Sono femminista, e quindi se sei un ragazzo AFAB per me sei una traditrice delle donne”. continuavo a pensare: ecco, questi sono i libri che danno ragione al ragazzo con cui ho discusso mesi fa. e poi ad un certo punto mi sono accorto di star ragionando come il classico MBEB, convinto che tutte le narrazioni debbano essere rivolte a me, che sia il lettore modello di ogni fottutu autriciu di questo pianeta.
Felix ever after non è per me: certo, lo posso leggere (e l’ho fatto con piacere), ma il libro di Callender è per chi adolescente si riconosce come AFAB/AMAB e ha paura, prova confusione, non comprende perché si senta quasi a suo agio nella definizione di persona trans, ma non fino in fondo.
quando un testo ha questo obiettivo, quando vuole dire “Esistiamo e meritiamo una vita piena e valida come quella di tuttu”, non può che essere didascalico. certo, ci sono scene che possiamo narrare in modo più esteticamente appagante (non a caso, quelle che si appoggiano alle prospettive della cultura egemone, come un padre che abbraccia un figlio dopo anni di rifiuti), ma la chiarezza diventa più importante dell’estetica. quando non sei abituatu a vederti rappresentatu, è istintivo cercarti nelle storie che incontri, sperare che il fatto che Pinco Pallo sia un uomo di trent’anni single in quel romanzo sia il segno che no dai, non è single, ha un compagno ma l’autore non è stato così coraggioso da dirlo. e leggere in modo chiaro ed esplicito “E poi Pinco Pallo si disse “Basta!”: fece le valigie e si trasferì da Amanda, Stefano e Pietro, i suoi grandi amori” è una cosa che chi non fa parte di una minoranza non potrà capire. non è una colpa, ambiamo alla vostra stessa fortuna. ma nel mentre avremo bisogno di scrivere cose che voi riterrete “brutte”, e ce ne faremo una ragione: quei libri non sono per voi.