cose di cui si può parlare grazie all’anonimato*.
dopo quasi due anni, oggi chiudo il mio (primo) percorso di psicoterapia. e da personcina attenta alla voce narrante del mondo, non riesco a non vedere il collegamento tra una serie di cose.
sono entrato in terapia quando ho iniziato ad accorgermi che non sentivo più nulla o quasi. le due emozioni principali erano paura e senso di soffocamento, la medicina preferita l’alcool (non avevo ancora realizzato fino in fondo quanto questo fosse un problema ma ora sono un anno, sei mesi e 12 giorni che non bevo e wow), le giornate una specie di grossa trappola.
giusto un mese e rotti prima del primo incontro avevo concluso la stesura definitiva di quello che avrei voluto fosse il mio secondo romanzo. volevo presentarlo ad un concorso, non passai la prima fase di selezione, decisi che ero un fallito e non toccai più penna per mesi.
punto centrale della storia è il superamento di uno stupro. ho cercato di immaginare un protagonista distante da me, ma per il tema principale ho preso a piene mani da una violenza che ho subito a 20anni (ad essere puntuali, quella è stata la prima ed unica esperienza di stupro che ho vissuto, ma non il primo abuso. ma dato che di tante cose non si è parlato se non negli ultimissimi anni, non ne ero consapevole). ho iniziato a scriverne senza pensare troppo alle conseguenze per me, e mi rendo conto solo ora che quell’idea è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso che era già abbondantemente riempito dagli eventi degli anni precedenti (tipo una relazione psicologicamente abusiva).
quel testo dopo la bocciatura al concorso se ne è rimasto chiuso nel PC per quasi due anni. fino a tre settimane fa, quando l’ho ripreso in mano per un altro potenziale concorso, e mi sono accorto che non era malaccio (spoiler: ho dovuto stravolgerlo totalmente, ma questa è un’altra storia ancora). non è facile pensare a quell’evento, a quello che ne è venuto dopo, provare a renderlo su una pagina che voglio sia viva e coinvolgente. ma ora, a distanza di due anni è qualcosa di vivo e che magari fa paura ma non terrore. la prima sensazione è nel voler far qualcosa per far sì che queste cose non accadano più (e per questo finisco per parlarne), ma non sono qui più a dirmi che è stata colpa mia, che me lo sono meritato, che l’ho cercato (che quando il messaggio che passa da fuori è questo, poi alla fine ci credi anche tu).
e mi piace un sacco questa simmetria: scrivo il libro – inizio la terapia – riprendo in mano – finisco la terapia. è una di quelle cose che un autore potrebbe mettere in silenzio in un romanzo per far capire, senza esplicitarlo direttamente, che lu suu protagonistu è prontu per viversi più pienamente.
e almeno per oggi, io mi sento così.
*che l’assenza di un nome e di una faccia non servono solo ai cyberbulli (che poi lo sono anche quando ci mettono nome e cognome), ma questa è un’altra storia.