perché decidiamo di inserire nelle nostre storie personaggi di gruppi marginalizzati?
qualche settimana fa, durante un corso, ho avuto la fortuna di ascoltare Djarah Kan parlare di rappresentazione delle persone nere nelle narrazioni, e a un certo punto ci ha chiesto: “ma perché voi volete parlare di persone nere? qual è il vostro obiettivo? cosa volete raccontare?”
già: perchè?
quella lezione mi ha mandato in tilt. mi chiedo spesso come posso rappresentare chi vive esperienze lontane da me, ma mi sono chiesto di rado se posso farlo. come questa domanda mi si affaccia alla testa parte un effetto tipo reduce del Vietnam, con le urla di chi dice che non si può più dire nulla allora, che un maschio bianco cisetero può parlare solo di sé stesso etc etc etc (storia vera e reiterata, sob). e, soprattutto, posso pure impegnarmi a “stare sul pezzo”, ma alla fine una parte di me è arrogantella ed egoista e pensa subito che “ehi, gli altri è il caso che non scrivano di esperienze che non conoscono, ma io sono sul pezzo, mi informo, leggo, ascolto, quindi posso farlo”. shame on me.
la risposta istintiva alla domanda di Djarah è: perché è giusto, e perché voglio mettere a disposizione il mio potenziale privilegio (quello di una sperata futura pubblicazione) a vantaggio di chi potrebbe non goderne.
ma se è questo l’obbiettivo, possono esserci soluzioni diverse, che vadano verso una direzione il più rispettosa possibile dei gruppi marginalizzati?
parlandone con unә amicә qualche settimana fa, questa persona ha detto la cosa che dal mio punto di vista chiude già il dibattito: l’esperienza di un’altra persona non è qualcosa che si può imparare, che si può studiare. posso pure passare tre anni a leggere testimonianze sull’ONIG e sulla vita di una persona trans non medicalizzata, degli effetti del binder sulla schiena e dell’euforia di genere, ma non posso capire cosa voglia dire essere una persona trans. posso essere spocchioso come Jonathan Franzen e studiarmi la tettonica a placche per tirarti giù paginate noiosissime solo perché mi credo figo, ma non posso fare la stessa cosa con la vita delle persone.
e visto che la rappresentazione di molti gruppi marginalizzati è scarsa, ogni personaggiә X nerә, trans, queer, disabile avrà un’enorme responsabilità, perché (purtroppo) sarà l’unico contatto verso quelle esperienze per un sacco di lettricә. anche partendo dalla mia esperienza di frocio con sempre più dubbi sulla propria identità di genere, posso contare sulle dita di una mano le volte in cui mi sono visto rappresentato davvero in modo sincero e rispettoso, in cui non ho visto personaggi gay essere trasformati in macchiette, in vittime, o in cloni degli etero. ci sono anche quelle retoriche che nascono con le migliori intenzioni ma che sono problematiche, come “l’amore è amore” o “ci sono ennemila specie omosessuali, ma solo una omofoba”. per le persone trans c’è il problema del “natә nel corpo sbagliato”. c’è trasversalmente lo sguardo pietista, la necessità di giustificare le vite delle persone non normate attraverso la sofferenza, trasformando le nostre storie in pornografie del dolore. sono narrazioni che emergono da ambienti “alleati”, nate pensando di dare una mano, ma che finiscono per creare nuovi problemi perché reiterate senza capire cosa realmente sia quell’esperienza.
anche per questo, gira che ti rigira, l’unica soluzione coscienziosa che trovo è: metterci da parte e fare in modo che ognuna di queste persone possa parlare il più possibile, che la sua voce abbia il volume più alto. che scriva la sua storia. spendere le energie che abbiamo per fare in modo che accada, invece di lamentarci che non possiamo dire più nulla.
anche perché, non è vero: possiamo continuare a narrare il razzismo, sessismo, omolesbobitransfobia, abilismo etc attraverso la nostra esperienza (che non vuol dire metterci al centro della narrazione).
se vogliamo davvero essere alleatә, abbiamo un grosso vantaggio da condividere, che è quello di narrare il modo in cui anche ә più woke tra noi collaborano al mantenimento di un sistema repressivo verso i gruppi marginalizzati. posso mostrare il razzismo che porto dentro di me, la mia transfobia, la mia omofobia, il mio sessismo. non è niente di nuovo e l’abbiamo ripetuto più volte anche qui: possiamo essere sul pezzo quanto ci pare, ma viviamo in una cultura fortemente repressiva, e quei pensieri si infilano costantemente nella testa. la colpa non è nel primo pensiero, ma in come agiamo poi. da maschio posso mostrare il modo in cui la performatività della mia identità di genere sia tossica, avveleni me e gli altri uomini che ho accanto. da bianco posso mostrare le ingiustizie del quotidiano che vanno a mio vantaggio, o i miei silenzi davanti all’ennesima battuta razzista di unә collega. non serve scomodare personaggi con esperienze che non ho vissuto per parlare di queste tematiche. sono convinto che sia una scelta importantissima, perché (come mi lamentavo qui) molto spesso nelle narrazioni chi agisce in modo razzista, sessista etc è così fortemente caricato in modo negativo da creare un’enorme distanza con chi esperisce la narrazione, permettendolә di pensare che quindi lәi non sia complice, partecipe del sistema di oppressione trasversale. mostrare personaggi comuni, tridimensionali, con pregi e difetti che portano avanti la propria vita e, inconsapevoli, continuano a tenere in piedi un sistema oppressivo, è il servizio migliore come narratricә che possiamo fare a chi continua ad essere spintә al margine.
sono consapevole che sia un tema complesso, e che i temi complessi richiedano risposte articolate. ci sono un sacco di dubbi che rimangono aperti: dove posso tracciare il confine tra le esperienze che posso capire e quelle che non? come creo un mondo plurale senza fare disastri? cosa posso fare con il weird per affrontare queste tematiche (e vorrei tornarci)?
vorrei una risposta sicura, ma non la ho. probabilmente tornerò tra un mese con un’idea totalmente diversa. però so una cosa: collaborare alla costruzione degli immaginari, delle narrazioni è un onore. non deve per forza essere facile. ma se proviamo ad ascoltare i bisogni di chi vive il margine sulla propria pelle ogni giorno, forse sarà più semplice anche per noi sapere come fare la cosa giusta.
abbracciotti dal pack.